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Обычный итальянский
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Комментарии

Мультилингва 7 августа 2021
Словарь включён в программу мероприятия [08.08.21 - 29.09.21] Мультилингва МЕГА 3.
170000 1 ноября 2020
^^^ Andrea (andreaak), grazie per questo suggerimento!
170000 1 ноября 2020
Для тех, у кого возникают трудности с набором буквы È (например, для меня): набирайте её при помощи ALT+0200.
Vespertilio 30 сентября 2020
С диакритикой, вроде, разобрался. Не нашёл способ удалить прошлый комментарий((
Vespertilio 29 сентября 2020
Попался словарь с таким символом - ó
Первый раз решил попробовать погонять, как-то отбивает желание заходить в словарь впредь(((
papin-aziat 25 декабря 2012
Замените пожалуйста заглавную è на E', на маке даже капслок не помогает.
teacherIgor 30 августа 2011
В самом начале одного текста попались вот такие кавычки.
Uncle_Sam 28 марта 2011

Написать тут
Описание:
Отрывки из текстов на итальянском языке. Длина 220-300 символов
Автор:
Uncle_Sam
Создан:
28 марта 2011 в 21:16 (текущая версия от 31 июля 2018 в 12:19)
Публичный:
Нет
Тип словаря:
Тексты
Цельные тексты, разделяемые пустой строкой (единственный текст на словарь также допускается).
Информация:
29.04.17 тексты словаря перезалиты. Спасибо Phemmer за исправления в текстах
Содержание:
1 Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a' camminanti una montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia reposto, il quale tanto più viene lor piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello smontare la gravezza.
2 E come che questi così variamente oppinanti non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno.
3 Dall'ombra accumulata ai piedi delle mura sorse allora un uomo, un tipo di vagabondo e di povero, con una barba grigia e un piccolo sacco in mano. Nella penombra però non si distingueva bene, solo il bianco dei suoi occhi dava riflessi.
4 Oh, quanto lontana ancora. Chissà quante ore di strada, e il suo cavallo era già sfinito. Drogo la fissava affascinato, si domandava che cosa ci potesse essere di desiderabile in quella solitaria bicocca, quasi inaccessibile, così separata dal mondo.
5 Qui si sedette, la schiena sulla scarpata, aspettò che venisse il sonno e intanto pensava alla strada che rimaneva, alla gente che avrebbe trovato alla Fortezza, alla vita futura, senza riconoscere alcun motivo di gioia. Il cavallo batteva a intervalli le unghie sul terreno in modo antipatico e strano.
6 All'alba, riprendendo la via, si accorse che sull'opposto versante del vallone, a uguale altezza, c'era un'altra strada, e poco dopo vi scorse qualche cosa che si muoveva. Il sole non era ancora sceso fin laggiù e le ombre ingombravano le rientranze, impedendo di distinguere bene.
7 Un uomo come lui finalmente; una creatura amica con cui avrebbe potuto ridere e scherzare, parlare della prossima vita comune, di cacce, di donne, della città.
8 Stringendosi intanto la valle, le due strade si avvicinavano e Giovanni Drogo vide che l'altro era un capitano. Non si fidò sulle prime di gridare, sarebbe parso inutile e irrispettoso. Salutò invece, a più riprese, portando la destra al berretto, ma l'altro non rispondeva.
9 Era la domanda temuta da Drogo. Quello strano colloquio, da una parte all'altra della valle, andava così assumendo il tono di un interrogatorio gerarchico. Spiacevole inizio, perché era probabile, se non certo, che il capitano fosse uno della Fortezza. Comunque, bisognava rispondere.
10 Il capitano non lo conosceva, non poteva con ogni probabilità afferrare il nome a quella distanza, ma parve quietarsi poiché riprese il cammino facendo un segno di intesa, come a dire che fra poco si sarebbero incontrati. Infatti dopo mezz'ora, a una stretta della gola, comparve un ponte.
11 Al ponte i due si incontrarono. Sempre a cavallo, il capitano si fece vicino a Drogo e gli tese la mano. Era un uomo sulla quarantina e forse più, dal volto asciutto e signorile. La sua uniforme era di linee rozze ma perfettamente in ordine. "Capitano Ortiz" si presentò.
12 Il capitano riprese senz'altro il cammino; Drogo lo seguì al fianco, un po' indietro per rispetto gerarchico e aspettava qualche spiacevole richiamo all'imbarazzante colloquio di poco prima. Invece il capitano taceva, forse non aveva voglia di parlare, forse era timido e non sapeva come cominciare.
13 Pareva davvero piccola in confronto alla visione della sera prima. Dal forte centrale, che in fondo assomigliava a una caserma con poche finestre, partivano due bassi muraglioni merlati che lo collegavano alle ridotte laterali, due per parte.
14 A destra, proprio sotto la parete della montagna, il pianoro si infossava in una specie di sella; là passava l'antica strada del valico, e terminava contro le mura.
15 Pensò a una prigione, pensò a una reggia abbandonata. Un lieve soffio di vento fece ondeggiare una bandiera sopra il forte, che prima pendeva floscia confondendosi con l'antenna. Si udì una vaga eco di tromba. Le sentinelle camminavano lente.
16 E dietro, che cosa c'era? Di là di quell'inospitale edificio, di là dei merli, delle casematte, delle polveriere, che chiudevano la vista, quale mondo si apriva? Come appariva il regno del Nord, il pietroso deserto per dove nessuno era mai passato?
17 La carta — ricordava vagamente Drogo — segnava al di là del confine una vasta zona con pochissimi nomi, ma dall'alto della fortezza si sarebbe visto almeno qualche paese, qualche prato, una casa, oppure soltanto la desolazione di una landa disabitata?
18 Gli pareva, la Fortezza, uno di quei mondi sconosciuti a cui mai aveva pensato sul serio di poter appartenere, non perché gli sembrassero odiosi, ma perché infinitamente lontani dalla sua solita vita. Un mondo ben più impegnativo, senza alcuno splendore che non fosse quello delle sue geometriche leggi.
19 Non varcare neppure la soglia della Fortezza e ridiscendere al piano, alla sua città, alle vecchie abitudini. Questo fu il primo pensiero di Drogo e non importa se tanta debolezza fosse vergognosa per un soldato, lui era anche pronto a confessarla, se occorresse, purché lo lasciassero subito andare.
20 Ma una densa nube si levava bianca, dall'invisibile orizzonte del nord, sopra gli spalti, e imperturbabili, sotto il sole a picco, le sentinelle camminavano su e giù come automi. Il cavallo di Drogo fece un nitrito. Poi ritornò il grande silenzio.
21 Giovanni staccò finalmente gli occhi dalla Fortezza e guardò di fianco a sé il capitano, sperando in una parola amica. Anche Ortiz era rimasto immobile e fissava intensamente le gialle mura. Sì, lui che ci viveva da diciott'anni, le contemplava, quasi ammaliato, come se rivedesse un prodigio.
22 Il tenente di picchetto, un giovane disinvolto e cordiale, di nome Carlo Morel, lo accompagnò attraverso il cuore della Fortezza. Dall'androne di ingresso — donde si intravedeva un grande cortile deserto — i due si avviarono per un largo corridoio, di cui non si riusciva a vedere la fine.
23 Drogo si presentò sull'attenti, mostrò i documenti personali, cominciò a spiegare di non aver fatto alcuna domanda per essere assegnato alla Fortezza (era deciso, se appena possibile, a farsi trasferire), ma il Matti lo interruppe.
24 "Ah, già, medico, perbacco, mi confondevo, medico, sì, sì." Matti parve per un momento imbarazzato e Drogo notò come, portando spesso la mano sinistra al colletto, cercasse di nascondere una macchia di unto, rotonda, una macchia evidentemente fresca, sul petto dell'uniforme.
25 "Ma certo, ma certo!" esclamò Matti con un breve riso. "Siamo qui per questo! Di mala voglia qui non vogliamo nessuno, neanche l'ultima delle sentinelle. Solo mi dispiace, mi sembra che lei sia un bravo ragazzo...»
26 Fu a questo punto che Drogo, girando un poco la testa a sinistra, portò gli sguardi alla finestra, aperta sul cortile interno. Si vedeva il muro di fronte, come gli altri gialliccio e battuto dal sole, con i rettangoli neri delle rare finestre.
27 Se ne vedeva solo l'estrema punta e in sé non aveva niente di speciale. Pure c'era in quel pezzo di rupe, per Giovanni Drogo, il primo visibile richiamo della terra del Nord, del leggendario regno che incombeva sulla Fortezza. E il resto com'era?
28 "Ma ora le spiego: se lei volesse partir subito, allora il meglio sarebbe che si desse ammalato. Lei va all'infermeria in osservazione per un paio di giorni e il medico le fa un certificato. Ci sono molti del resto che a quest'altezza non resistono...»
29 Soprattutto bisogna che se ne occupi il signor colonnello, ed è questo che preferirei evitare. Queste cose in fondo gli dispiacciono, lui si addolora, è la parola, si addolora, come se si facesse torto alla sua Fortezza. Ecco, se fossi in lei, se proprio devo essere sincero, preferirei evitare...
30 "Nemmeno per idea, tenente, lei non mi ha capito. In nessuno dei casi la sua carriera ne avrà a soffrire. Si tratta solo, come dire? di una sfumatura... Certo, e gliel'ho detto subito, al signor colonnello la cosa non può fare piacere. Ma se lei è proprio deciso...»
31 "Il servizio qui non è faticoso" sottolineò il maggiore "quasi sempre servizio di guardia. E la Ridotta Nuova, che è un po' più impegnativa, nei primi tempi non le sarà certo affidata. Fatiche niente, non abbia paura, avrà caso mai da annoiarsi...»
32 Ma Drogo ascoltava appena le spiegazioni di Matti, attratto stranamente dal riquadro della finestra, con quel pezzettino di rupe che spuntava sopra il muro di faccia. Il vago sentimento che non riusciva a decifrare gli si insinuava nell'animo; forse una cosa stupida e assurda, una suggestione senza costrutto.
33 Una sentinella armata stava sulla soglia. Morel chiese di parlare al tenente Grotta, che comandava la guardia.
34 Così, a dispetto del regolamento, poterono entrare. Giovanni si trovò in un piccolo andito di passaggio; su una parete, sotto un lume, c'era una tabella con i nomi dei soldati di servizio.
35 Giovanni si trovò improvvisamente affacciato alla merlatura perimetrale: dinanzi a lui, inondata dalla luce del tramonto, si sprofondava la valle, si aprivano ai suoi occhi i segreti del settentrione.
36 Il cielo spazzato dal vento risplendeva sopra le mura, tagliate diagonalmente dall'ultimo sole. Una sera di settembre. Il vice comandante, tenente colonnello Nicolosi, uscì dal portone del Comando, zoppicando per un'antica ferita, e si appoggiava alla spada.
37 Quel giorno era di servizio, per l'ispezione, il gigantesco capitano Monti; la sua voce rauca diede il comando e tutti insieme, assolutamente insieme, i soldati presentarono le armi, con un potente scroscio metallico. Si fece un vasto silenzio.
38 Erano le famose trombe d'argento della Fortezza Bastiani, con cordoni di seta rossa e oro, con appeso un grande stemma. La loro voce pura si allargò per il cielo e ne vibrava l'immobile cancellata delle baionette, con vaga sonorità di campana.
39 Le baionette scintillarono ancora un attimo, lucide contro il cielo profondo, quindi furono inghiottite entro le schiere, spegnendosi simultaneamente. Il colonnello era scomparso dalla finestra.
40 Un'ora più tardi Giovanni Drogo era sulla terrazza sommitale della terza ridotta, nel punto medesimo donde la sera prima aveva guardato verso il settentrione. Ieri era venuto a curiosare come un viaggiatore di passaggio.
41 Quattro artiglieri, sotto di lui, nell'interno del fortino, badavano ai due cannoni puntati al fondo della valle; tre sentinelle si dividevano il ciglione perimetrale della ridotta, altre quattro erano scaglionate lungo il muraglione, verso destra, venticinque metri per una.
42 Il cambio con le sentinelle smontanti era avvenuto con meticolosa precisione sotto gli occhi del sergente maggiore Tronk, specialista dei regolamenti. Tronk era alla Fortezza da ventidue anni e oramai non se ne muoveva più neppure nei periodi di licenza.
43 Praticamente, ufficiali e sottufficiali in servizio di guardia giravano sul ciglione delle proprie mura senza formalità; i soldati li conoscevano bene di vista e lo scambio della parola d'ordine sarebbe parso ridicolo. Solo con Tronk i soldati seguivano alla lettera il regolamento.
44 Era piccolo e magro, con una faccia da vecchietto, la testa rasata; parlava pochissimo anche con i colleghi e nelle ore libere preferiva in genere starsene solo a studiare musica. Quella era la sua mania; tanto che il maestro della banda, il maresciallo Espina, era forse il suo unico amico.
45 Il servizio così non va" ripeté Tronk "dovrebbero farlo prima, il cambio della guardia, alla Ridotta Nuova. Ma il signor colonnello non vuole.»
46 Così adesso escono dalla Fortezza tre quarti d'ora prima del cambio della guardia. Mettiamo oggi. Il cambio generale si è fatto alle sei. La guardia per la Ridotta Nuova è partita di qui alle cinque e un quarto ed è arrivata là alle sei giuste.
47 Per uscire dalla Fortezza di parole d'ordine non ha bisogno, perché è un reparto inquadrato. Per entrare nella Ridotta occorreva la parola d'ordine di ieri; e questa la sapeva soltanto l'ufficiale. Fatto il cambio alla Ridotta, comincia la parola di oggi, anche questa la sa soltanto l'ufficiale.
48 E così dura 24 ore, fino a che non viene la nuova guardia a dare il cambio. Domani sera poi, quando i soldati fanno ritorno (potranno arrivare alle sei e mezzo, a tornare indietro la strada è meno faticosa) alla Fortezza la parola d'ordine è ancora cambiata.
49 E così c'è bisogno di una terza parola. L'ufficiale ne deve sapere tre, quella che serve per l'andata, quella che si consuma nel servizio e la terza per il ritorno. Tutte queste complicazioni perché i soldati, mentre sono in strada, non sappiano
50 E poi, loro che vogliono la segretezza, non si accorgono che in questo modo occorrono tre parole invece di due e che la terza, quella per rientrare il giorno dopo alla Fortezza, viene messa in giro più di 24 ore prima?
51 "Ma allora" disse Drogo irritato per quell'assurdo rigore "allora non sarebbe più semplice fare una parola d'ordine speciale per la Ridotta Nuova? Fanno il cambio prima e la parola per rientrare viene insegnata soltanto all'ufficiale. Così i soldati non sanno niente.»
52 Si ricordava ancora Tronk che esistevano, in qualche parte del mondo, milioni di uomini simili a lui che non vestivano l'uniforme? e giravano liberi per la città e la notte potevano a loro piacimento mettersi a letto o andare all'osteria o a teatro?
53 Già era scesa la piena notte. Drogo era seduto nella nuda camera della ridotta e si era fatto portare carta, inchiostro e penna per scrivere. "Cara mamma" cominciò a scrivere e immediatamente si sentì come quando era bambino.
54 Solo, al lume di una lanterna, mentre nessuno lo vedeva, nel cuore della Fortezza a lui ignota, lontano dalla casa, da tutte le cose familiari e buone, gli pareva una consolazione poter almeno aprire completamente il suo cuore.
55 Ma Drogo si ricordò della mamma, a quell'ora ella pensava proprio a lui e si consolava all'idea che il figlio se la passasse piacevolmente con simpatici amici, magari, chissà, in gentile compagnia. Lei certo lo credeva soddisfatto, sereno.
56 "Sono arrivato l'altro ieri dopo un ottimo viaggio. La Fortezza è grandiosa..." Oh, farle capire lo squallore di quelle mura, quell'aria vaga di punizione ed esilio, quegli uomini stranieri ed assurdi. Invece: "Gli ufficiali qui mi hanno accolto affettuosamente" scriveva.
57 Se le fosse stato vicino, nella stessa stanza, raccolti sotto il familiare lume, allora sì Giovanni le avrebbe detto tutto e lei non avrebbe fatto in tempo a contristarsi, perché lui le era accanto e il brutto era ormai passato. Ma così da lontano, per lettera?
58 "Eppure io" Drogo scriveva "ho creduto bene per me e per la carriera restare qualche tempo quassù... La compagnia poi è molto simpatica, il servizio facile e non faticoso. E la sua stanza, il rumore della cisterna, l'incontro col capitano Ortiz e la desolata terra del nord?
59 Nella sua casa, in città, gli orologi, uno dopo l'altro, con voci diverse, adesso suonavano le dieci, ai rintocchi tintinnavano lievemente i bicchieri nelle credenze, dalla cucina giungeva una eco di risata, dall'altra parte della via un canto di pianoforte.
60 La penna scricchiolava un poco. Benché trionfasse la notte, il vento cominciava a soffiare fra le merlature portando ignoti messaggi, benché dentro alla ridotta si ammucchiassero dense le tenebre e l'aria fosse umida e ingrata, "in complesso io sono molto contento e sto bene" scriveva Giovanni Drogo.
61 Suonava una piccola campana e subito l'ultima sentinella chiamava il compagno più vicino; da questa al soldato seguente e poi avanti fino all'estremità opposta delle mura, di ridotta in ridotta, attraverso il forte e ancora lungo la bastionata, il richiamo correva nella notte.
62 Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare.
63 Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada.
64 Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa tempo a tornare. Ma Giovanni Drogo in quel momento dormiva ignaro e sorrideva nel sonno come fanno i bambini.
65 Passeranno dei giorni prima che Drogo capisca ciò che è successo. Sarà allora come un risveglio. Si guarderà attorno incredulo; poi sentirà un trepestio di passi sopraggiungenti alle spalle, vedrà la gente, risvegliatasi prima di lui, che corre affannosa e lo sorpassa per arrivare in anticipo
66 Sentirà il battito del tempo scandire avidamente la vita. Non più alle finestre si affacceranno ridenti figure, ma volti immobili e indifferenti. E se lui domanderà quanta strada rimane, loro faranno sì ancora cenno all'orizzonte, ma senza alcuna bontà e letizia
67 Dietro quel fiume — dirà la gente — ancora dieci chilometri e sarai arrivato. Invece non è mai finita, le giornate si fanno sempre più brevi, i compagni di viaggio più radi, alle finestre stanno apatiche figure pallide che scuotono il capo.
68 Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme, e intorno né una casa né un uomo né un albero, neanche un filo d'erba, tutto così da immemorabile tempo.
69 Giunse finalmente dalla città la cassa con i vestiti del tenente Drogo. Fra l'altro c'era un mantello nuovissimo, di straordinaria eleganza. Drogo lo indossò e si guardò pezzo a pezzo nel piccolo specchio della propria stanza
70 Gli parve quello un vivo collegamento con il suo mondo, pensò con soddisfazione che tutti lo avrebbero guardato, tanto splendida era la stoffa, fiero il panneggiamento che ne risultava.
71 Lasciò quindi la camera e si avviò giù per le scale, osservando, dove la luce lo permetteva, l'eleganza della propria ombra. Tuttavia, man mano ch'egli scendeva nel cuore della Fortezza, il mantello sembrava perdere in qualche modo il suo primo splendore.
72 Scese per una angusta scaletta a chiocciola, tagliata nel corpo di una muraglia, e i suoi passi risuonavano di sopra e di sotto come ci fosse altra gente. Le preziose falde del mantello battevano, oscillando, sulle bianche muffe dei muri.
73 Drogo giunse così ai sotterranei. Il laboratorio del sarto Prosdocimo era appunto allogato in una cantina. Uno spiraglio di luce scendeva, nelle giornate buone, da una piccola finestretta al livello del suolo, ma quella sera avevano già acceso i lumi.
74 "Buonasera, signor tenente" disse Prosdocimo, il sarto reggimentale, appena lo vide entrare. Nello stanzone solo alcuni piccoli tratti erano illuminati: un tavolo dove un vecchietto scriveva, il banco dove lavoravano tre giovani aiutanti.
75 "Mi lasci vedere" disse il sarto con un sorriso di curiosità diffidente, prendendo un lembo del mantello di Drogo e traendolo verso la luce; egli era di grado maresciallo ma la sua qualità di sarto pareva concedergli di diritto una certa ironica familiarità coi superiori.
76 In quel momento si udì un passo scendere dalle scale e comparve un soldato. Prosdocimo era chiamato di sopra, dal maresciallo del magazzino vestiario. "Mi scusi, signor tenente" fece il sarto. "E' una faccenda di servizio. Fra due minuti sono di ritorno." E seguì il soldato di sopra.
77 Drogo si sedette preparandosi ad aspettare. I tre aiutanti, partito il padrone, avevano interrotto il lavoro. Il vecchietto finalmente levò gli occhi dalle sue carte si alzò in piedi, si avvicinò zoppicando a Giovanni.
78 E invece non si muoverà mai" disse. "Lui, il signor colonnello comandante e molti altri resteranno qui fino a crepare, è una specie di malattia, stia attento lei, signor tenente, che è nuovo, lei che è appena arrivato, stia attento finché è in tempo...
79 Proprio "eventi" diceva. Questa è la sua frase. Si è messo in mente che la Fortezza è importantissima, molto più importante di tutte le altre, che in città non capiscono niente". Parlava adagio, tra una parola e l'altra faceva in tempo ad insinuarsi il silenzio.
80 Nel silenzio sotterraneo Drogo allora sentì i colpi del proprio cuore che si era messo a battere forte. Dunque anche il vecchietto rintanato nella cantina a fare conti, anche quell'oscura e umile creatura aspettava un destino eroico?
81 Forse perché in qualche parte delle scale era stata aperta una porta, adesso si udivano, filtrate dai muri, lontane voci umane di indeterminabile origine; ogni tanto cessavano lasciando un vuoto, poco dopo raffioravano ancora, andavano e venivano, come lento respiro della Fortezza.
82 Ora Drogo finalmente capiva. Egli fissava le ombre multiple delle uniformi appese, che tremolavano all'oscillare dei lumi e pensò che in quel momento preciso il colonnello, nel segreto del suo ufficio, aveva aperto la finestra verso il nord.
83 Dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l'avventura, l'ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno. Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumavano lassù la migliore parte della vita.
84 Non si erano adattati alla esistenza comune, alle gioie della solita gente, al medio destino; fianco a fianco vivevano con la uguale speranza, senza mai farne parola, perché non se ne rendevano conto o semplicemente perché erano soldati, col geloso pudore della propria anima.
85 Forse anche Tronk, probabilmente. Tronk inseguiva gli articoli del regolamento, la disciplina matematica, l'orgoglio della responsabilità scrupolosa e si illudeva che ciò gli bastasse. Pure se gli avessero detto: sempre così fino che vivi, tutto uguale fino in fondo, anche lui si sarebbe svegliato.
86 Drogo aveva capito il loro facile segreto e con sollievo pensò di esserne fuori, spettatore incontaminato. Fra quattro mesi, grazie a Dio, egli li avrebbe lasciati per sempre. Gli oscuri fascini della vecchia bicocca si erano ridicolmente dissolti. Così pensava.
87 Ma perché il vecchietto continuava a fissarlo e con quell'espressione ambigua? Perché Drogo sentiva il desiderio di fischiettare un poco, di bere vino, di uscire all'aperto? Forse per dimostrare a se stesso di essere veramente libero e tranquillo?
88 Essi sono seduti con lui alla mensa, a quest'ora vuota. Solo un famiglio rimane, appoggiato allo stipite di una lontana porta, e i ritratti degli antichi colonnelli, allineati sui muri attorno, immersi nella penombra. Otto bottiglie stanno nere sulla tovaglia, nel disordine del pranzo finito.
89 Pareva strano che da un giovane così raffinato potesse uscire un suono tanto sgradevole. Ma egli tossiva con una sapiente misura, abbassando ogni volta la testa, quasi ad indicare che lui non poteva impedirlo, in fondo era una cosa non sua che per correttezza gli toccava subire.
90 Angustina era pallido, ora non si lisciava più i baffetti, ma fissava dinanzi a sé la penombra. Gravava oramai nella sala il sentimento della notte, quando le paure escono dai decrepiti muri e l'infelicità si fa dolce, quando l'anima batte orgogliosa le ali sopra l'umanità addormentata.
91 Erano le fatue inconscie crudeltà di Lagorio, a cui tutti erano abituati. Ma dietro le sue parole, comparve ai compagni l'immagine della lontana città con i suoi palazzi e le chiese immense, le aeree cupole, i romantici viali lungo il fiume.
92 Tutti ora guardavano senza farsi accorgere, la faccia di Angustina greve di stanchezza inconfessata; non erano lì, capivano, per festeggiare Lagorio in partenza, in verità essi salutavano Angustina perché lui solo sarebbe rimasto.
93 Angustina invece sarebbe rimasto, non riuscivano a capire il perché, ma lo sapevano bene. E benché sentissero oscuramente che anche questa volta egli obbediva al suo ambizioso stile di vita, non erano più capaci di invidiarlo; pareva in fondo un'assurda mania.
94 E perché Angustina, maledetto snob, adesso ancora sorride? Perché, malato com'è, non corre a fare i bagagli, non si prepara alla partenza? e invece fissa dinanzi a sé la penombra? A che cosa pensa?
95 Quale segreto orgoglio lo trattiene alla Fortezza? Anche lui dunque?
96 Le muraglie stavano sopra di lui cupe ed arcigne, la sentinella alla porta era immobile, non un'anima viva sulla vasta spianata. Da un casottino, addossato al forte, uscivano ritmici suoni di martello. Angustina era sceso a salutare il compagno.
97 Fece una carezza al cavallo. "Sempre una bella bestia" disse. Lagorio se ne andava, scendeva alla loro città, alla vita facile e lieta. Lui invece restava, lui guardava con occhi impenetrabili il compagno che si affaccendava intorno alle bestie; e stentava a sorridere.
98 Pure erano amici; fra tutti quanti Lagorio era il solo che istintivamente lo capisse, solo lui sentiva pena per il compagno, quasi si vergognava di partire dinanzi a lui, come di una brutta ostentazione, e non sapeva decidersi.
99 La neve copriva interamente gli spalti, aveva steso una fragile cornice lungo le merlature, precipitava con piccoli tonfi dalle gronde, si staccava ogni tanto dal fianco dei precipizi, per nessuna comprensibile ragione, e orribili masse rimbombavano nei canaloni fumando.
100 Né adagio né presto altri tre mesi erano passati. Natale si era già dissolto nella lontananza, anche il nuovo anno era venuto portando per qualche minuto agli uomini strane speranze. Giovanni Drogo già si preparava a partire.
101 Occorreva ancora la formalità della visita medica, come gli aveva promesso il maggiore Matti, e poi sarebbe potuto andare. Egli continuava a ripetersi che questo era un avvenimento lieto, che in città lo aspettava una vita facile, divertente e forse felice, eppure non era contento.
102 Il mattino del 10 gennaio entrò nell'ufficio del dottore, all'ultimo piano della Fortezza. Il medico si chiamava Ferdinando Rovina, aveva più di cinquant'anni, un volto floscio e intelligente, una rassegnata stanchezza, e non portava la divisa ma una lunga giacca scura da magistrato.
103 Forse avrebbe desiderato che Drogo lo contraddicesse ancora, ma siccome il tenente tacque, entrò in argomento: invitò Giovanni a sedere, si fece dare da lui nome e cognome che scrisse al posto giusto, sul modulo regolamentare.
104 E allora gli parve di vedere le mura giallastre del cortile levarsi altissime verso il cielo di cristallo e sopra di esse, al di là, ancora più alte, solitarie torri, muraglioni a sghembo coronati di neve, aerei spalti e forti ni, che non aveva mai prima notato.
105 L'opera di Buzzati, seppure sfaccettata in vari aspetti e generi, rispecchia una costante comune: la montagna. Essa appare come elemento costante sia nella prosa sia nella pittura; tanto che il suo primo romanzo è stato tracciato anche in una serie di bozzetti per lo più inediti.
106 Centocinquantasei frammenti, note e racconti brevi, raccolti come scintille dei romanzi, come colloquio con se stesso, come risonanza interiore ed esteriore. Fra le varie forme narrative testimoniate in questo libro comincia farsi strada la struttura a dialogo propria del testo teatrale.
107 I temi del discorso narrativo di Buzzati si riverberano anche nella poesia, dove il pensiero, le voci e le immagini dei personaggi usufruiscono della musica, delle parole, dei suoni onomatopeici, del ritmo percussivo e significante che accompagnerà anche i suoi libretti d'opera.
108 Pensava alle giornate squallide all'Accademia militare, si ricordò delle amare sere di studio quando sentiva fuori nelle vie passare la gente libera e presumibilmente felice; delle sveglie invernali nei cameroni gelati, dove ristagnava l'incubo delle punizioni.
109 Che cosa senza senso: perché non riusciva a sorridere con la doverosa spensieratezza mentre salutava la madre? Perché non badava neppure alle sue ultime raccomandazioni e arrivava soltanto a percepire il suono di quella voce, così familiare ed umano.
110 Probabilmente i vetri erano aperti, le donne stavano mettendo in ordine. Avrebbero disfatto il letto, chiuso in un armadio gli oggetti, poi sprangato le persiane. Per mesi e mesi nessuno ci sarebbe entrato, tranne la paziente polvere e nei giorni di sole tenui strisce di luce.
111 L'amico Vescovi qui lo salutò affettuosamente e Drogo continuò solo per la strada, avvicinandosi alle montagne. Il sole era a picco quando giunse all'imbocco della valle che conduceva alla Fortezza. A destra, in cima a un monte, si vedeva la ridotta che il Vescovi gli aveva indicato.
112 Ansioso di arrivare, Drogo, senza fermarsi a mangiare, spinse il cavallo già stanco su per la strada che si faceva ripida e incassata fra precipitosi costoni. Gli incontri erano sempre più rari. A un carrettiere Giovanni domandò quanto tempo ci fosse per arrivare alla Fortezza.
113 Guardateli, Giovanni Drogo e il suo cavallo, come sono piccoli sul fianco delle montagne che si fanno sempre più grandi e selvagge. Egli continua a salire per arrivare alla Fortezza in giornata, ma più svelte di lui, dal fondo, dove romba il torrente, più svelte di lui salgono le ombre.
114 A un certo punto esse si trovano proprio all'altezza di Drogo sul versante opposto della gola, sembrano per un momento rallentare la corsa, come per non scoraggiarlo, poi scivolano su per i greppi e i roccioni, il cavaliere è rimasto di sotto.
115 Tutto il vallone era già zeppo di tenebre violette, solo le nude creste erbose, a incredibile altezza, erano illuminate dal sole quando Drogo si trovò improvvisamente davanti, nera e gigantesca contro il purissimo cielo della sera, una costruzione militaresca che sembrava antica e deserta.
116 Dall'ombra accumulata ai piedi delle mura sorse allora un uomo, un tipo di vagabondo e di povero, con una barba grigia e un piccolo sacco in mano. Nella penombra però non si distingueva bene, solo il bianco dei suoi occhi dava riflessi.
117 Oh, quanto lontana ancora. Chissà quante ore di strada, e il suo cavallo era già sfinito. Drogo la fissava affascinato, si domandava che cosa ci potesse essere di desiderabile in quella solitaria bicocca, quasi inaccessibile, così separata dal mondo.
118 Il buio lo raggiunse ancora in cammino. La valle si era stretta e la Fortezza era scomparsa dietro le montagne incombenti. Non c'erano lumi, neppure voci di uccelli notturni, solo di tanto in tanto arrivava suono di acque lontane.
119 All'alba, riprendendo la via, si accorse che sull'opposto versante del vallone, a uguale altezza, c'era un'altra strada, e poco dopo vi scorse qualche cosa che si muoveva. Il sole non era ancora sceso fin laggiù e le ombre ingombravano le rientranze, impedendo di distinguere bene.
120 Un uomo come lui finalmente; una creatura amica con cui avrebbe potuto ridere e scherzare, parlare della prossima vita comune, di cacce, di donne, della città. Della città che ora sembrava a Drogo relegata in un mondo lontanissimo.
121 Stringendosi intanto la valle, le due strade si avvicinavano e Giovanni Drogo vide che l'altro era un capitano. Non si fidò sulle prime di gridare, sarebbe parso inutile e irrispettoso. Salutò invece, a più riprese, portando la destra al berretto, ma l'altro non rispondeva.
122 Era una spiegazione stupida, quasi offensiva perché poteva lasciar pensare a uno scherzo. Drogo se ne pentì immediatamente. In che razza di ridicolo impiccio era andato mai a cacciarsi, tutto perché non era capace di bastare a se stesso.
123 Era la domanda temuta da Drogo. Quello strano colloquio, da una parte all'altra della valle, andava così assumendo il tono di un interrogatorio gerarchico. Spiacevole inizio, perché era probabile, se non certo, che il capitano fosse uno della Fortezza.
124 Il capitano non lo conosceva, non poteva con ogni probabilità afferrare il nome a quella distanza, ma parve quietarsi poiché riprese il cammino facendo un segno di intesa, come a dire che fra poco si sarebbero incontrati. Infatti dopo mezz'ora, a una stretta della gola, comparve un ponte.
125 Al ponte i due si incontrarono. Sempre a cavallo, il capitano si fece vicino a Drogo e gli tese la mano. Era un uomo sulla quarantina e forse più, dal volto asciutto e signorile. La sua uniforme era di linee rozze ma perfettamente in ordine.
126 Il capitano riprese senz'altro il cammino; Drogo lo seguì al fianco, un po' indietro per rispetto gerarchico e aspettava qualche spiacevole richiamo all'imbarazzante colloquio di poco prima. Invece il capitano taceva, forse non aveva voglia di parlare, forse era timido e non sapeva come cominciare.
127 Drogo guardava sulla polvere della strada l'ombra netta dei due cavalli, le teste che facevano sì sì ad ogni passo; sentiva il loro quadruplice scalpitio, qualche ronzare di moscone e niente altro. La fine della strada non si vedeva.
128 Ogni tanto, ad una curva della valle, si scorgeva di fronte, altissima, tagliata in coste precipitose, la via che si arrampicava a zig zag. Ci si arrivava, si guardava allora in su, eccola ancora di fronte, la strada, sempre più alta.
129 Pareva davvero piccola in confronto alla visione della sera prima. Dal forte centrale, che in fondo assomigliava a una caserma con poche finestre, partivano due bassi muraglioni merlati che lo collegavano alle ridotte laterali, due per parte.
130 Pensò a una prigione, pensò a una reggia abbandonata. Un lieve soffio di vento fece ondeggiare una bandiera sopra il forte, che prima pendeva floscia confondendosi con l'antenna. Si udì una vaga eco di tromba. Le sentinelle camminavano lente.
131 E dietro, che cosa c'era? Di là di quell'inospitale edificio, di là dei merli, delle casematte, delle polveriere, che chiudevano la vista, quale mondo si apriva? Come appariva il regno del Nord, il pietroso deserto per dove nessuno era mai passato.
132 La carta — ricordava vagamente Drogo — segnava al di là del confine una vasta zona con pochissimi nomi, ma dall'alto della fortezza si sarebbe visto almeno qualche paese, qualche prato, una casa, oppure soltanto la desolazione di una landa disabitata.
133 Giovanni staccò finalmente gli occhi dalla Fortezza e guardò di fianco a sé il capitano, sperando in una parola amica. Anche Ortiz era rimasto immobile e fissava intensamente le gialle mura. Sì, lui che ci viveva da diciott'anni, le contemplava, quasi ammaliato, come se rivedesse un prodigio.
134 Tutti là dentro parevano essersi dimenticati che in qualche parte del mondo esistevano fiori, donne ridenti, case allegre e ospitali. Tutto là dentro era una rinuncia, ma per chi, per quale misterioso bene? Ora essi procedevano al terzo piano, lungo un corridoio esattamente identico al primo.
135 Fu a questo punto che Drogo, girando un poco la testa a sinistra, portò gli sguardi alla finestra, aperta sul cortile interno. Si vedeva il muro di fronte, come gli altri gialliccio e battuto dal sole, con i rettangoli neri delle rare finestre.
136 C'erano anche un orologio che segnava le due e, sulla terrazza sommitale, una sentinella che camminava su e giù, con il fucile in spalla. Ma sopra il ciglione dell'edificio, lontana, entro ai riverberi meridiani, spuntava una cima rocciosa.
137 Se ne vedeva solo l'estrema punta e in sé non aveva niente di speciale. Pure c'era in quel pezzo di rupe, per Giovanni Drogo, il primo visibile richiamo della terra del Nord, del leggendario regno che incombeva sulla Fortezza.
138 Nello stesso tempo si sentiva alquanto rasserenato. Gli premeva ancora di andarsene, ma senza più l'ansia di prima. Quasi si vergognava delle apprensioni avute all'arrivo. Forse che lui non doveva essere all'altezza di tutti gli altri.
139 Gli pareva di riconoscerle, le basse rupi in rovina, la valle tortuosa senza piante né verde, quei precipizi a sghembo e infine quel triangolo di desolata pianura che le rocce davanti non riuscivano a nascondere. Echi profondissimi dell'animo suo si erano ridestati e lui non li sapeva capire.
140 Solo tre finestre erano illuminate, ma appartenevano alla sua medesima facciata, cosicché dentro non si vedeva; il loro alone di luce, e quello della stanza di Drogo, si stampavano sul muro opposto ingigantiti e in uno di essi si agitava un'ombra, forse un ufficiale stava spogliandosi.
141 Chiuse la finestra, si spogliò, si mise a letto, restò qualche minuto a pensare, fissando il soffitto, pure rivestito di legno. Si era dimenticato di portarsi da leggere, ma quella sera non gli importava perché sentiva un gran sonno.
142 Gli parve che un torpore improvviso lo trascinasse nel sonno. Ma ne aveva troppo coscienza. Una baraonda di immagini, quasi di sogno, gli passarono davanti, cominciavano persino a formare una storia; ma dopo qualche istante si accorse di essere ancora sveglio.
143 Decine e decine erano gli uomini svegli, mentre lui giaceva nel letto, mentre tutto pareva immerso nel sonno. Decine e decine — pensava Drogo — ma per chi, per che cosa? Il formalismo militare, in quella fortezza, sembrava aver creato un insano capolavoro.
144 Ancora il rigurgito della cisterna, ancora un'altra stella che sconfinò dal riquadro della finestra e la sua luce continuava a raggiungere il mondo, gli spalti della Fortezza, gli occhi febbrili delle sentinelle, ma non più Giovanni Drogo, che attendeva il sonno, ora tormentato da sinistri pensieri.
145 Gli pareva così di sentire crescere attorno una oscura trama che cercasse di trattenerlo. Probabilmente non si trattava neppure del Matti. Né questi, né il colonnello, né alcun altro ufficiale si interessavano menomamente di lui: che rimanesse o partisse certo era loro del tutto indifferente.
146 Due sere dopo Giovanni Drogo montò per la prima volta di servizio alla terza ridotta. Alle sei del pomeriggio si schierarono nel cortile le sette guardie: tre per il forte, quattro per le ridotte laterali. La ottava, per la Ridotta Nuova, era partita in precedenza perché c'era parecchia strada da fare.
147 Il cambio con le sentinelle smontanti era avvenuto con meticolosa precisione sotto gli occhi del sergente maggiore Tronk, specialista dei regolamenti. Tronk era alla Fortezza da ventidue anni e oramai non se ne muoveva più neppure nei periodi di licenza.
148 Praticamente, ufficiali e sottufficiali in servizio di guardia giravano sul ciglione delle proprie mura senza formalità; i soldati li conoscevano bene di vista e lo scambio della parola d'ordine sarebbe parso ridicolo. Solo con Tronk i soldati seguivano alla lettera il regolamento.
149 Era piccolo e magro, con una faccia da vecchietto, la testa rasata; parlava pochissimo anche con i colleghi e nelle ore libere preferiva in genere starsene solo a studiare musica. Quella era la sua mania; tanto che il maestro della banda, il maresciallo Espina, era forse il suo unico amico.
150 Si ricordava ancora Tronk che esistevano, in qualche parte del mondo, milioni di uomini simili a lui che non vestivano l'uniforme? e giravano liberi per la città e la notte potevano a loro piacimento mettersi a letto o andare all'osteria o a teatro.
151 Ma Drogo si ricordò della mamma, a quell'ora ella pensava proprio a lui e si consolava all'idea che il figlio se la passasse piacevolmente con simpatici amici, magari, chissà, in gentile compagnia. Lei certo lo credeva soddisfatto, sereno.
152 Nella sua casa, in città, gli orologi, uno dopo l'altro, con voci diverse, adesso suonavano le dieci, ai rintocchi tintinnavano lievemente i bicchieri nelle credenze, dalla cucina giungeva una eco di risata, dall'altra parte della via un canto di pianoforte.
153 Attraverso una strettissima finestretta, quasi una feritoia, dal posto dove sedeva, Drogo poteva gettare uno sguardo verso la valle del nord, quella terra triste; ma adesso non si vedeva che buio. La penna scricchiolava un poco.
154 Suonava una piccola campana e subito l'ultima sentinella chiamava il compagno più vicino; da questa al soldato seguente e poi avanti fino all'estremità opposta delle mura, di ridotta in ridotta, attraverso il forte e ancora lungo la bastionata, il richiamo correva nella notte.
155 Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada.
156 Passeranno dei giorni prima che Drogo capisca ciò che è successo. Sarà allora come un risveglio. Si guarderà attorno incredulo; poi sentirà un trepestio di passi sopraggiungenti alle spalle, vedrà la gente, risvegliatasi prima di lui, che corre affannosa e lo sorpassa per arrivare in anticipo.
157 Sentirà il battito del tempo scandire avidamente la vita. Non più alle finestre si affacceranno ridenti figure, ma volti immobili e indifferenti. E se lui domanderà quanta strada rimane, loro faranno sì ancora cenno all'orizzonte, ma senza alcuna bontà e letizia.
158 Dietro quel fiume — dirà la gente — ancora dieci chilometri e sarai arrivato. Invece non è mai finita, le giornate si fanno sempre più brevi, i compagni di viaggio più radi, alle finestre stanno apatiche figure pallide che scuotono il capo.
159 Giunse finalmente dalla città la cassa con i vestiti del tenente Drogo. Fra l'altro c'era un mantello nuovissimo, di straordinaria eleganza. Drogo lo indossò e si guardò pezzo a pezzo nel piccolo specchio della propria stanza.
160 Pensò che non doveva sciuparlo per il servizio di fortezza, nelle notti di guardia, fra le umide mura. Era anche di malaugurio metterlo lassù, per la prima volta, quasi ad ammettere ch'egli non avrebbe avuto occasioni migliori.
161 Lasciò quindi la camera e si avviò giù per le scale, osservando, dove la luce lo permetteva, l'eleganza della propria ombra. Tuttavia, man mano ch'egli scendeva nel cuore della Fortezza, il mantello sembrava perdere in qualche modo il suo primo splendore.
162 Scese per una angusta scaletta a chiocciola, tagliata nel corpo di una muraglia, e i suoi passi risuonavano di sopra e di sotto come ci fosse altra gente. Le preziose falde del mantello battevano, oscillando, sulle bianche muffe dei muri.
163 Drogo giunse così ai sotterranei. Il laboratorio del sarto Prosdocimo era appunto allogato in una cantina. Uno spiraglio di luce scendeva, nelle giornate buone, da una piccola finestretta al livello del suolo, ma quella sera avevano già acceso i lumi.
164 Nel silenzio sotterraneo Drogo allora sentì i colpi del proprio cuore che si era messo a battere forte. Dunque anche il vecchietto rintanato nella cantina a fare conti, anche quell'oscura e umile creatura aspettava un destino eroico.
165 Forse perché in qualche parte delle scale era stata aperta una porta, adesso si udivano, filtrate dai muri, lontane voci umane di indeterminabile origine; ogni tanto cessavano lasciando un vuoto, poco dopo raffioravano ancora, andavano e venivano, come lento respiro della Fortezza.
166 Ora Drogo finalmente capiva. Egli fissava le ombre multiple delle uniformi appese, che tremolavano all'oscillare dei lumi e pensò che in quel momento preciso il colonnello, nel segreto del suo ufficio, aveva aperto la finestra verso il nord.
167 Dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l'avventura, l'ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno. Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumavano lassù la migliore parte della vita.
168 Non si erano adattati alla esistenza comune, alle gioie della solita gente, al medio destino; fianco a fianco vivevano con la uguale speranza, senza mai farne parola, perché non se ne rendevano conto o semplicemente perché erano soldati, col geloso pudore della propria anima.
169 Forse anche Tronk, probabilmente. Tronk inseguiva gli articoli del regolamento, la disciplina matematica, l'orgoglio della responsabilità scrupolosa e si illudeva che ciò gli bastasse. Pure se gli avessero detto: sempre così fino che vivi, tutto uguale fino in fondo, anche lui si sarebbe svegliato.
170 Drogo aveva capito il loro facile segreto e con sollievo pensò di esserne fuori, spettatore incontaminato. Fra quattro mesi, grazie a Dio, egli li avrebbe lasciati per sempre. Gli oscuri fascini della vecchia bicocca si erano ridicolmente dissolti.
171 Così pensava. Ma perché il vecchietto continuava a fissarlo e con quell'espressione ambigua? Perché Drogo sentiva il desiderio di fischiettare un poco, di bere vino, di uscire all'aperto? Forse per dimostrare a se stesso di essere veramente libero e tranquillo.
172 Tacquero. Fuori, nella notte, sotto la pioggia autunnale, camminavano le sentinelle. L'acqua scrosciava sulle terrazze, gorgogliava nelle gronde, colava giù per le mura. Fuori era notte fonda e Angustina ebbe un piccolo colpo di tosse.
173 Pareva strano che da un giovane così raffinato potesse uscire un suono tanto sgradevole. Ma egli tossiva con una sapiente misura, abbassando ogni volta la testa, quasi ad indicare che lui non poteva impedirlo, in fondo era una cosa non sua che per correttezza gli toccava subire.
174 Angustina era pallido, ora non si lisciava più i baffetti, ma fissava dinanzi a sé la penombra. Gravava oramai nella sala il sentimento della notte, quando le paure escono dai decrepiti muri e l'infelicità si fa dolce, quando l'anima batte orgogliosa le ali sopra l'umanità addormentata.
175 Erano le fatue inconscie crudeltà di Lagorio, a cui tutti erano abituati. Ma dietro le sue parole, comparve ai compagni l'immagine della lontana città con i suoi palazzi e le chiese immense, le aeree cupole, i romantici viali lungo il fiume.
176 Tutti ora guardavano senza farsi accorgere, la faccia di Angustina greve di stanchezza inconfessata; non erano lì, capivano, per festeggiare Lagorio in partenza, in verità essi salutavano Angustina perché lui solo sarebbe rimasto.
177 Angustina invece sarebbe rimasto, non riuscivano a capire il perché, ma lo sapevano bene. E benché sentissero oscuramente che anche questa volta egli obbediva al suo ambizioso stile di vita, non erano più capaci di invidiarlo; pareva in fondo un'assurda mania.
178 Logorio aveva una faccia contenta. Era uscito dalla sua camera senza darci neanche un'occhiata né si voltò indietro, quando fu all'aperto, per guardare la Fortezza. Le muraglie stavano sopra di lui cupe ed arcigne, la sentinella alla porta era immobile, non un'anima viva sulla vasta spianata.
179 Un colpo di speroni e il cavallo si mosse. Fu allora che Angustina alzò leggermente la mano destra, per fare un cenno. Come per richiamare il compagno, che si fermasse ancora un momento, aveva da dirgli un'ultima cosa. Lagorio vide il gesto con la coda dell'occhio e si fermò a una ventina di metri.
180 Forse avrebbe desiderato che Drogo lo contraddicesse ancora, ma siccome il tenente tacque, entrò in argomento: invitò Giovanni a sedere, si fece dare da lui nome e cognome che scrisse al posto giusto, sul modulo regolamentare.
181 Vide, fra lanterne e fiaccole, sul fondo livido del cortile, soldati grandissimi e fieri sguainare le baionette. Sul chiaro della neve formavano file nere ed immobili, come di ferro. Essi erano bellissimi e stavano impietriti, mentre una tromba cominciava a suonare.
182 Palpitò ancora con slancio guerriero. Tacendo, lasciò inesprimibile incanto, persino nell'ufficio del medico. Il silenzio divenne tale che si poté udire un lungo passo scricchiolare sulla neve gelata. Il colonnello in persona era sceso a salutare la guardia.
183 Pur attraverso la finestra chiusa si udivano i passi vitrei del colonnello. Nel crepuscolo le baionette facevano, allineate, tante strisce d'argento. Da lontananze improbabili giungevano echi di trombe, il suono di prima, forse, rimandato dall'intrico delle muraglie.
184 Passò nella mente di Drogo il ricordo della sua città, un'immagine pallida, vie fragorose sotto la piova, statue di gesso, umidità di caserme, squallide campane, facce stanche e disfatte, pomeriggi senza fine, soffitti sporchi di polvere.
185 Così doveva accadere, e questo forse era già stabilito da molto tempo, cioè da quel giorno lontano che Drogo si affacciò per la prima volta, con Ortiz, al bordo del pianoro e la Fortezza gli apparve nel greve splendore meridiano.
186 Drogo ha deciso di rimanere, tenuto da un desiderio ma non solo da questo: l'eroico pensiero forse e tanto non sarebbe bastato. Per ora egli crede di aver fatto una cosa nobile e in buona fede se ne meraviglia, scoprendosi migliore di quanto avesse creduto.
187 Avessero pur suonato le trombe, si fossero pure udite canzoni di guerra, dal nord fossero pure giunti inquietanti messaggi, se era solo questo Drogo sarebbe ugualmente partito; ma c'era già in lui il torpore delle abitudini, la vanità militare, l'amore domestico per le quotidiane mura.
188 Abitudine era diventato per lui il turno di guardia, che le prime volte pareva insopportabile peso; a poco a poco aveva imparato bene le regole, i modi di dire, le manie dei superiori, la topografia delle ridotte, i posti delle sentinelle, gli angoli dove non tirava vento, il linguaggio delle trombe.
189 Abitudine erano diventati i colleghi, oramai li conosceva così bene che anche i più sottili loro sottintesi non lo trovavano impreparato; e per lungo tempo alla sera stavano a chiacchierare insieme dei fatti della città che per la lontananza acquistavano smisurato interesse.
190 Abitudine la mensa buona e comoda, l'accogliente camino del ritrovo ufficiali, giorno e notte sempre acceso; la premura dell'attendente, un buon diavolo di nome Geronimo, che a poco a poco aveva imparato i suoi speciali desideri.
191 Tutte queste cose erano oramai diventare sue e lasciarle gli avrebbe causato pena. Drogo però non lo sapeva, non sospettava che la partenza gli sarebbe costata fatica né che la vita della Fortezza inghiottisse i giorni uno dopo l'altro, tutti simili, con velocità vertiginosa.
192 Ma per adesso eccolo, spavaldo e spensierato, sugli spalti della quarta ridotta, in una pura e gelida notte. Per il freddo le sentinelle continuavano a camminare senza posa e i loro passi scricchiolavano sulla neve gelata. Una luna grande e bianchissima illuminava il mondo.
193 Era quello il tratto più basso della fortificazione, corrispondente al massimo incavo del valico. In quel punto nella muraglia c'era la porta che metteva in comunicazione i due Stati. I massicci battenti corazzati di ferro più non si aprivano da tempo immemorabile.
194 Quanto tempo davanti! Lunghissimo gli pareva anche un solo anno e gli anni buoni erano appena cominciati; sembravano formare una serie lunghissima, di cui era impossibile scorgere il fondo, un tesoro ancora intatto e così grande da potersi annoiare.
195 Le mura in quel punto seguivano il pendio del valico, formando una complicata scala di terrazze e ballatoi. Sotto di lui, nerissime contro la neve, Drogo vedeva, alla luce di luna, le successive sentinelle, i loro passi metodici facevano cric cric sullo strato gelato.
196 La più vicina, in una sottostante terrazza, a una decina di metri, meno freddolosa delle altre, se ne stava immobile, con le spalle appoggiate a un muro e si sarebbe detto addormentata. Invece Drogo la udì canterellare una nenia con voce profonda.
197 Drogo si fermò di colpo, disorientato. A forse meno di cinque metri di distanza, al lume limpido della luna, egli vedeva benissimo la faccia del militare e la sua bocca era chiusa. Ma la nenia non si era interrotta. Da dove veniva allora la voce.
198 Il vento batte contro lo splendido mantello dell'ufficiale e anche l'ombra azzurra sulla neve si agita come bandiera. La sentinella sta immobile. La luna cammina cammina, lenta ma senza perdere un solo istante, impaziente dell'alba.
199 Quasi due anni dopo Giovanni Drogo dormiva una notte nella sua camera della Fortezza. Ventidue mesi erano passati senza portare niente di nuovo e lui era rimasto fermo ad aspettare, come se la vita dovesse avere per lui una speciale indulgenza.
200 Al di là di una profonda rientranza della casa, vedeva la facciata di un palazzo ricchissimo illuminato dalla luna. E l'attenzione di Drogo bambino era tutta attratta verso un'alta sottile finestra, coronata da un baldacchino di marmo.
201 Tra la finestra a cui era affacciato e il meraviglioso palazzo — un intervallo di una ventina di metri — avevano intanto cominciato a fluttuare fragili parvenze, simili a fate forse, che si trascinavano dietro strascichi di velo, rilucenti alla luna.
202 Fatta, apparentemente della loro medesima essenza, la portantina traboccava di veli e pennacchi. Angustina, con la sua caratteristica espressione di distacco e di noia, la guardava avvicinarsi; era evidente che veniva per lui.
203 L'ingiustizia feriva il cuore di Drogo. Perché tutto ad Angustina e a lui niente? Pazienza un altro, ma proprio Angustina, sempre così superbo e arrogante. Drogo guardò le altre finestre per vedere se ci fosse qualcuno che potesse eventualmente parteggiare per lui ma non riuscì a scorgere nessuno.
204 Finalmente la portantina si fermò, dondolando proprio dinanzi alla finestra e tutti i fantasmi d'un balzo si appollaiarono attorno formando una palpitante corona: tutti erano protesi ad Angustina non più ossequiosi bensì con curiosità avida e quasi maligna.
205 Di colpo Drogo si svuotò di ogni invidia poiché capì ciò che stava accadendo. Vedeva Angustina, ritto al davanzale della finestra, e i suoi occhi fissare la portantina. Sì, erano venuti da lui i messaggeri delle fate quella notte, ma per quale ambasciata.
206 Stretti intorno alla finestra, simili a un panneggiamento di spuma, quelli si accavallavano l'uno sull'altro, premendo verso il bambino e lui faceva con la testa di sì come per dire: va bene, va bene, tutto perfettamente d'accordo.
207 Traendolo via la portantina, Angustina staccò gli sguardi da Drogo e volse il capo dinanzi, in direzione del corteo, con una specie di curiosità divertita e diffidente. Sembrava che esperimentasse per la prima volta un giocattolo a cui non teneva affatto ma che per convenienza non aveva potuto rifiutare.
208 Era questa un fortino staccato a tre quarti d'ora di strada dalla Fortezza, in cima a un cono di roccia, incombente sulla pianura dei Tartari. Era il presidio più importante, completamente isolato e doveva dare l'allarme se qualche minaccia si avvicinava.
209 Drogo uscì alla sera dalla Fortezza al comando di una settantina di uomini: tanti soldati occorrevano perché i posti di sentinella erano dieci senza contare due cannoniere. Era la prima volta che egli metteva piede al di là del passo, praticamente si era già fuori confine.
210 Giovanni pensava alle responsabilità del servizio ma soprattutto meditava il sogno su Angustina. Questo sogno gli aveva lasciato nell'animo una risonanza ostinata. Gli pareva che ci dovessero essere oscuri collegamenti con le cose future, benché lui non fosse specialmente superstizioso.
211 Entrarono nella Ridotta Nuova, si fece il cambio delle sentinelle, poi la guardia smontante se n'andò e dal ciglio della terrazza Drogo stette ad osservarla che si allontanava attraverso i ghiaioni. La Fortezza di là appariva come un lunghissimo muro, un semplice muro con dietro niente.
212 Per ventiquattr'ore nella solitaria ridotta l'unico comandante sarebbe stato Drogo. Qualsiasi cosa fosse successa non si potevano domandare aiuti. Anche se fossero arrivati nemici, il fortino doveva bastare a se stesso. Il Re medesimo fra quelle mura per ventiquattr'ore contava meno di Drogo.
213 Fosse il pensiero di essere completamente solo a comandare il fortino, fosse la vista della disabitata landa, fosse il ricordo del sogno di Angustina, Drogo sentiva ora crescergli attorno, col dilatarsi della notte, una sorda inquietudine.
214 Era l'ora delle speranze e lui meditava le eroiche storie che probabilmente non si sarebbero verificate mai, ma che pure servivano a incoraggiare la vita. Certe volte si accontentava di molto meno, rinunciava ad essere solo lui l'eroe, rinunciava alla ferita, rinunciava anche al Re che gli diceva bravo.
215 In fondo sarebbe stata una semplice battaglia, una battaglia sola ma sul serio, caricare in grande uniforme ed essere capace di sorridere precipitando verso le facce ermetiche dei nemici. Una battaglia, e dopo forse sarebbe stato contento per tutta la vita.
216 Provò a tenere chiuse per qualche istante le palpebre, poi rivolse gli sguardi agli oggetti attorno; a un secchio che doveva essere servito per lavare la terrazza, a un uncino di ferro sul muro, a un panchetto che l'ufficiale di servizio prima di lui doveva essersi fatto portare lassù per stare seduto.
217 Tronk gli era troppo diverso per potergli servire da amico. Oh, se avesse avuto accanto i compagni, magari uno soltanto, allora sì sarebbe stato diverso, Drogo avrebbe anche trovato la voglia di scherzare e aspettare l'alba non gli avrebbe causato pena.
218 Lingue di nebbia si andavano intanto formando nella pianura, pallido arcipelago sopra oceano nero. Una di esse si stese proprio ai piedi della ridotta, nascondendo l'oggetto misterioso. L'aria si era fatta umida, dalle spalle di Drogo il mantello pendeva floscio e pesante.
219 Ricordò allora la vita, la Fortezza, la Ridotta Nuova, l'enigma della macchia nera. Guardò subito in basso, avido di sapere, e desiderava vilmente di non scorgere altro che pietre e cespugli, niente altro che la pianura, così come era sempre stata, solitaria e vuota.
220 Era un cavallo, non grande ma basso e grossetto, di curiosa bellezza per le gambe sottili e la criniera fluente. Strana era la sua forma ma soprattutto meraviglioso il colore, un colore nero splendente che macchiava il paesaggio.
221 Da solo non significava gran che, ma dietro al cavallo si capiva che dovevano arrivare altre cose. Esso aveva la sella in ordine come se poco tempo prima fosse stato montato. C'era dunque una storia in sospeso, ciò che fino a ieri era assurdo, ridicola superstizione, poteva dunque essere vero.
222 Si compiacque di provvedere personalmente alle più minute formalità del servizio di guardia, come per dimostrare a Tronk e ai soldati che la comparsa del cavallo, benché strana e preoccupante, non lo aveva affatto turbato; e trovava questo molto militare.
223 Tronk, sceso da basso, fece subito tacere le grida e dimostrò seccamente al Lazzari come fosse impossibile che il suo cavallo fosse fuggito: per passare nella valle del nord avrebbe dovuto attraversare le mura della fortezza o scavalcare le montagne.
224 Il Lazzari rispose che c'era un passaggio — aveva sentito dire — un comodo passaggio attraverso le rupi, una antica strada abbandonata che nessuno più ricordava. C'era difatti alla Fortezza, fra le tante, questa curiosa leggenda.
225 Com'era prescritto, Drogo si presentò al capitano di ispezione, poi insieme andarono a cercare il colonnello; di solito, per le novità, bastava rivolgersi all'aiutante maggiore in prima, ma questa volta poteva essere una cosa grave e non bisognava perdere tempo.
226 Ma era ormai inutile perché il soldato Giuseppe Lazzari, mentre la guardia smontante ritornava verso la Fortezza, era riuscito a nascondersi dietro un pietrone, senza che nessuno se ne accorgesse, era poi sceso da solo per i ghiaioni, aveva raggiunto il cavallino ed ora lo riconduceva alla Fortezza.
227 Qualche minuto più tardi, quando i soldati avevano già rotto le righe, ci si ricordò che il Lazzari non sapeva la parola d'ordine; non si trattava più della prigione, ma della vita; guai se si fosse presentato alle mura, gli avrebbero sparato contro.
228 Riesaminando i fatti della giornata, era arrivato fino al ritorno nella Fortezza senza trovare nulla di sospetto; poi aveva come incontrato un intoppo; sì, all'appello doveva esserci stata un'irregolarità e al momento, come spesso avviene in questi casi, egli non la aveva avvertita.
229 La sentinella per distrarsi si guardò attorno, fece un cenno di saluto a un compagno, sentinella una trentina di metri più a destra, si aggiustò il pesante berretto che gli stringeva la fronte, poi volse gli occhi a sinistra e vide il sergente maggiore Tronk, immobile, che lo fissava severamente.
230 Ma la sentinella non era più Moretto, era semplicemente un soldato con la faccia dura che adesso alzava lentamente il fucile, mirando contro l'amico. Aveva appoggiato lo schioppo alla spalla e con la coda dell'occhio sbirciò il sergente maggiore, invocando silenziosamente un cenno di lasciar stare.
231 Il fucile fece un piccolo lampo, una minuscola nuvoletta di fumo, anche lo sparo al primo momento non sembrò gran che ma poi fu moltiplicato dagli echi, ripercosso di muraglia in muraglia, restò a lungo nell'aria, morendo in un lontano brontolio come di tuono.
232 Essi trovano il Lazzari così com'è morto, la faccia a terra e le braccia protese in avanti. Il fucile tenuto a tracolla si è impigliato, nella caduta, fra due sassi e sta diritto in su, col calcio in alto, cosa strana a vedersi.
233 Un soldato si abbassa per slacciare la cinghia e depone sui sassi la lanterna, proprio vicino al morto. Lazzari non ha fatto in tempo a chiudere completamente le palpebre e nello spiraglio degli occhi, sul bianco, la fiamma fa un lieve riflesso.
234 Tronk aspetta qualche istante sull'attenti, poi, siccome il Matti tace, fa segno ai soldati di continuare. Uno cerca di slacciare la cinghia del fucile, ma il fermaglio è duro e si stenta. Tirando, il soldato sente il peso del corpo ucciso, un peso spropositato, come di piombo.
235 Tolto il fucile, i due soldati rovesciano delicatamente il cadavere, voltandolo con la faccia in su. Ora si vede completamente il suo volto. La bocca è chiusa e inespressiva, solo gli occhi semiaperti e immobili, che resistono alla luce della lanterna, sanno di morte.
236 Il cuscino forse ha ancora l'impronta della sua testa, esattamente come due giorni prima, quando egli si era svegliato. Poi c'è probabilmente anche una boccettina di inchiostro — aggiunge mentalmente Tronk, meticoloso anche nei solitari pensieri — una boccettina di inchiostro e una penna.
237 Una piccola striscia nera avanzava dal nord attraverso la landa disabitata e parve assurdo prodigio, benché già nella notte qualche presentimento fosse andato girando per la Fortezza. Alle sei circa la sentinella Andronico mandò per primo il grido di allarme.
238 Da molti anni lassù non si era udito cannone. Le mura ebbero un piccolo fremito. Lo sparo si allargò in un lento boato, funesto suono di rovina fra le rupi. E gli occhi del tenente Maderna si volsero al piatto profilo della Fortezza, aspettandovi segni di agitazione.
239 Solamente il comandante della Fortezza poteva ordinare il segnale, e tutti pensavano a lui: i soldati già lo attendevano che venisse a ispezionare le mura da un capo all'altro, già lo vedevano avanzare con un fiero sorriso, fissando bene tutti negli occhi.
240 Per di più era una splendida giornata di ottobre, il sole limpido, l'aria leggera, il tempo più desiderabile per una battaglia. Il vento agitava la bandiera alzata sul tetto del forte, la terra gialla del cortile risplendeva e i soldati passandovi vi lasciavano nitide ombre.
241 Oramai la striscia nera degli stranieri più non si scorgeva sul piccolo triangolo di pianura visibile dalla finestra, segno ch'essi si erano fatti sotto sempre più vicini al confine. In tre quattro ore forse sarebbero stati ai piedi delle montagne.
242 Ma il signor colonnello continuava a pulire con il fazzoletto senza motivo, le lenti dei suoi occhiali, sfogliava i rapporti accumulati sul tavolo: l'ordine del giorno da firmare, una richiesta di licenza, il modulo giornaliero dell'ufficiale medico, un buono scarico della selleria.
243 Che cosa aspetti, signor colonnello? Il sole è già alto, perfino il maggiore Matti, entrato poco fa, non nascondeva una certa apprensione, perfino lui che non crede mai in niente. Fatti almeno vedere dalle sentinelle, un piccolo giro sulle mura.
244 Filimore vuole invece aspettare. Saranno soldati quegli stranieri, lui non nega, ma quanti sono? Uno ha detto duecento, un altro duecentocinquanta, gli hanno fatto inoltre presente che se quella è l'avanguardia il grosso sarà almeno di duemila uomini.
245 Ma il comandante va su e giù dalla finestra allo scrittoio e viceversa, sfoglia svogliatamente i rapporti. Perché gli stranieri dovrebbero assaltare la Fortezza? pensa. Magari sono normali manovre per esperimentare le difficoltà del deserto.
246 Fidarsi! Oh, lui vorrebbe bene non potersi fidare, per questo ha speso la vita, pochi anni gli rimangono ancora e se questa non è la volta buona tutto probabilmente è esaurito. Non è la paura che lo attarda, non è il pensiero di poter morire.
247 Gli altri, gli ufficiali della Fortezza, le erano subito corsi incontro facendole festa. A differenza di lui si erano fatti avanti fiduciosi e pregustavano, quasi altra volta l'avessero provato, l'acre e potente odore della battaglia.
248 Fino a che la bella parvenza non l'avesse toccato con mano, lui non si sarebbe mosso, come per superstizione. Forse bastava un niente, un semplice cenno di saluto, una ammissione di desiderio, perché l'immagine si dissolvesse nel nulla.
249 Perciò egli si limitava a scuotere il capo facendo segno di no, che la fortuna si doveva sbagliare. E incredulo si guardava attorno, dietro di sé, dove era presumibile ci fossero altre persone, quelle che la fortuna veramente cercava.
250 Intanto la pendola di fronte allo scrittoio continuava a macinare la vita, e le magre dita del colonnello, asciugate dagli anni, si ostinavano a ripulire, con l'aiuto del fazzoletto, i vetri degli occhiali, sebbene non ce ne fosse bisogno.
251 E il colonnello fece un passo avanti, alzò la testa come era sua abitudine quando cominciava a parlare, e gli ufficiali videro che il suo volto si faceva improvvisamente rosso: sì, il signor colonnello arrossiva come un bambino, perché stava per confessare il geloso segreto della propria vita.
252 Come ebbe finito di leggere, il colonnello piegò il doppio foglio, lo introdusse nuovamente nella busta, si mise la busta in tasca e alzò la testa, facendo segno che stava per parlare. Si sentiva nell'aria che qualcosa era successo, che l'incanto di poco prima era stato spezzato.
253 Il Filimore parlando mandava lunghi sospiri, non moti di impazienza o dolore, ma sospiri esclusivamente fisici, come è proprio dei vecchi; e simile a quella dei vecchi pareva essersi fatta d'improvviso la sua voce, per certe flaccidità cavernose, e ugualmente i suoi sguardi, divenuti giallastri e opachi.
254 Se l'era sentita fin da principio, il colonnello Filimore. Non potevano essere nemici, lo sapeva bene: lui non era nato per la gloria, tante volte si era stupidamente illuso. Perché — si domandava con rabbia — perché si era lasciato ingannare.
255 Tacque e sembrava affaticato. Egli aveva visto sulle facce degli ufficiali scendere, mentre lui parlava, un velo di delusione, li aveva visti, da guerrieri ansiosi di lotta, ridiventare incolori ufficiali di guarnigione. Ma erano giovani, pensava, loro facevano ancora in tempo.
256 Si interruppe perché dall'alto di un grigio muraglione, incombente sopra di loro, era giunto un suono di frana. Si udivano i tonfi dei macigni che esplodevano contro le rupi, e rimbalzavano con selvaggio impeto giù per l'abisso tra fumate di polvere.
257 Un rombo di tuono si ripercoteva di parete in parete. Nel cuore dei dirupi la misteriosa frana continuò per qualche minuto ma si esaurì nei fondi canali prima di giungere in basso; alle ghiaie dove salivano i soldati non arrivarono che due tre sassetti.
258 Monti accelerò ancora più l'andatura. Ma Angustina gli teneva dietro; la sua faccia adesso era pallida per lo sforzo, rivoli di sudore scendevano dal bordo del berretto, anche la stoffa della giacca, sulla schiena, si era fatta fradicia, ma lui non diceva parola né perdeva distanza.
259 Angustina era pallido, rivoli di sudore fluivano dal bordo del berretto, la giacca era completamente intrisa. Ma serrava i denti e non cedeva, sarebbe morto piuttosto. Cercando che il capitano non lo vedesse, egli lanciava realmente occhiate verso la sommità del vallone, a cercare il termine della fatica.
260 Ad un tratto i ghiaioni cessarono e la valle sboccò in un breve pianoro con stentate erbette ai piedi di un circo di pareti. Da una parte e dall'altra si innalzavano, in un intrico di torri e di spaccature, muraglie di cui era difficile stimare l'altezza.
261 Gli stivali del tenente Angustina in verità non tenevano bene sulle rocce della parete. Sprovvisti di chiodi, essi tendevano a scivolare, mentre gli scarponi del capitano Monti e dei soldati addentavano solidamente gli appigli.
262 La montagna si rivelava meno difficile e ripida di quanto non apparisse a guardarla da basso. Era tutta solcata da cunicoli, da spaccature, da cornici ghiaiose, e le singole rocce scabre per innumerevoli appigli, ai quali ci si attaccava agevolmente.
263 Man mano che l'abisso aumentava sotto di loro, sembrava sempre più allontanarsi la cresta finale, difesa da un giallo muraglione a piombo. E sempre più velocemente si avvicinava la sera, benché uno spesso soffitto di nubi grige impedisse di valutare la residua altezza del sole.
264 C'erano infatti. Tre minuscole figure nere spiccavano contro il cielo grigio e stavano visibilmente muovendosi. Era evidente che avevano già occupato il tratto inferiore della cresta e con ogni probabilità sarebbero arrivati in cima prima di loro.
265 Angustina vide così la piccola pattuglia del capitano sparire in alto, dietro grige mensole di roccia. Per un pezzo sentì le piccole frane di ghiaia da essi prodotte nei canali, poi neppure quelle. Anche le loro voci finirono per dissolversi nella lontananza.
266 Ma intanto il cielo si faceva cupo. Le rupi attorno, le pallide pareti dall'altra parte del vallone, il fondo del precipizio, avevano una tinta livida. Piccoli corvi volavano lungo gli aerei spigoli emettendo strida, parevano chiamarsi l'un l'altro per pericoli imminenti.
267 Angustina si fermò a guardarlo per un istante e non disse parola. Gli stivali adesso non lo tormentavano più ma cominciava una stanchezza profonda. Ogni metro di salita gli costava un estremo forzo. Per fortuna le rocce di quel tratto erano meno ripide e ancora più rotte delle precedenti.
268 Finalmente, sbucato su di una larga cengia ghiaiosa, Angustina si trovò a pochi metri dal capitano Monti. Salito sulle spalle di un soldato, l'ufficiale tentava di inerpicarsi su per una breve parete a picco, non più alta certo di una dozzina di metri, ma in apparenza inaccessibile.
269 Annaspò tre quattro volte cercando un appiglio, parve trovare, lo si udì bestemmiare, lo si vide calare giù nuovamente sulle spalle del soldato, che vibrava tutto per lo sforzo. Finalmente rinunciò e con un salto fu sulle ghiaie della cengia.
270 Il Monti era livido per la rabbia. Non c'era dunque più niente da fare. Quelli del nord avevano ormai occupato anche la cima. Il capitano sedette sopra un macigno della cengia, senza badare ai suoi soldati che continuavano ad arrivare dal basso.
271 Proprio in quel momento cominciò a nevicare, una neve fitta e pesante, come di pieno inverno. In pochi istanti, quasi incredibile, le ghiaie della cengia divennero bianche e la luce venne improvvisamente a mancare. Era piombata la notte a cui nessuno fino allora aveva seriamente pensato.
272 Seguì un lungo silenzio, non si udiva che il fruscio della neve, qualche colpo di tosse dei soldati. La visibilità era quasi completamente scomparsa, appena appena si riusciva a distinguere il ciglio della paretina incombente, dal quale ora si irradiava il rosso riflesso di una lanterna.
273 Fra clamorose esclamazioni inerenti al gioco, il tenente reggeva nella mano sinistra le proprie carte, con la destra le gettava sul lembo della mantella, facendo finta di raccogliere le prese; attraverso la fitta neve, gli stranieri non potevano certo dalla cresta notare che l'ufficiale giocava da solo.
274 Forse, dagli spalti del Forte, una sentinella in quel momento aveva voltato casualmente gli sguardi verso le montagne, riconosciuto i lumi sulla altissima cresta; a così grande distanza la paretina maligna era meno che nulla, non faceva proprio alcuna differenza.
275 Allora, al paragone di Angustina pur essendo ben più vigorosi e spavaldi, il capitano, il sergente e tutti gli altri soldati sembrarono l'un l'altro rozzi bifolchi. E nell'animo del Monti, per quanto fosse quasi inverosimile, nacque un invidioso stupore.
276 Cessata la neve, il vento mandava lamenti fra le rupi, molinava un polverio di ghiaccioli, faceva oscillare le fiammelle fra i vetri delle lanterne. Angustina pareva non lo sentisse, se ne stava immobile, appoggiato al pietrone, gli occhi fissi ai lumi lontani della Fortezza.
277 Due parole e la testa di Angustina si ripiegò in avanti abbandonata a se stessa. Una delle sue mani giacque bianca e rigida entro la piega del mantello, la bocca riuscì a chiudersi, di nuovo sulle labbra andò formandosi un sottile sorriso.
278 Era venuto improvvisamente l'inverno, lunga stagione. Sarebbe caduta la neve, prima quattro cinque centimetri; poi, dopo una pausa, uno strato più alto, e poi ancora altre volte, pareva impossibile farne un conto, c'era tanto tempo davanti prima che ritornasse la primavera.
279 Era venuto l'inverno e gli stranieri se n'erano andati. I bei stendardi della speranza, dai riflessi forse di sangue, erano lentamente calati e l'animo era di nuovo tranquillo; ma il cielo era rimasto vuoto, inutilmente l'occhio cercava ancora qualche cosa alle estreme frontiere dell'orizzonte.
280 Essi sedevano sopra una panca, avvolti nelle mantelle, gli sguardi abbandonati a se stessi, in direzione del nord, dove si accumulavano grandi nubi informi piene di neve. Soffiava di quando in quando il vento settentrionale, gelando addosso i vestiti.
281 Già si udivano al mattino voci di uccelli che tutti credevano di avere dimenticate. In compenso i corvi non se ne stavano più riuniti sul pianoro della Fortezza ad aspettare i rifiuti delle cucine ma si sparpagliavano per le valli in cerca di cibo fresco.
282 Di notte, nelle camerate, le assi che sostengono gli zaini, le rastrelliere per i fucili, le stesse porte, anche i bei mobili di noce massiccio nella camera del signor colonnello, tutti i legni della fortezza, compresi i più antichi, mandavano scricchiolii nel buio.
283 Certe volte erano colpi secchi come pistolettate, sembrava che qualche cosa andasse veramente in pezzi, uno si risvegliava nella branda e tendeva le orecchie: nulla però riusciva a sentire se non altri scricchiolii che bisbigliavano nella notte.
284 Ecco il tempo in cui nelle vecchie assi risuscita un ostinato rimpianto di vita. Moltissimi anni prima, nei giorni felici, era un giovanile flusso di calore e di forza, dai rami uscivano fasci di germogli. Poi la pianta era stata abbattuta.
285 Anch'esso è inondato di sole ma non ne risulta letizia. E' la parete di una caserma, che ci sia il sole o la luna per il muro è affatto indifferente, basta che non nascano ostacoli al buon andamento del servizio. Il muro di una caserma e niente altro.
286 Eppure un giorno, in un lontano settembre, l'ufficiale era rimasto a guardarlo quasi affascinato; allora queste mura sembravano custodire per lui un severo ma invidiabile destino. Sebbene non riuscisse a trovarle belle, egli era rimasto immobile per alcuni minuti come dinanzi a un prodigio.
287 Un ufficiale gira per i lavatoi deserti, altri sono di servizio alle varie ridotte, altri cavalcano sulla sassosa spianata, altri siedono negli uffici. Ciascuno non riesce a capire bene cosa sia successo, ma le facce degli altri gli danno ai nervi.
288 Sempre le stesse facce, pensa istintivamente, sempre gli stessi discorsi, lo stesso servizio, gli stessi documenti. E intanto fermentano teneri desideri, non è facile stabilire con esattezza che cosa si vorrebbe, certo non quelle mura, quei soldati, quei suoni di tromba.
289 Non pensarci più, Giovanni Drogo, non voltarti indietro ora che sei arrivato al ciglio del pianoro e la strada sta per immergersi nella valle. Sarebbe una stupida debolezza. La conosci pietra per pietra, si può dire, la Fortezza Bastiani, non corri certo il pericolo di dimenticarla.
290 Il cavallo trotta allegramente, la giornata è buona, l'aria tepida e leggera, la vita ancora lunga davanti, quasi ancora da cominciare; che bisogno ci sarebbe di dare un'ultima occhiata alle mura, alle casematte, alle sentinelle di turno sul ciglio delle ridotte.
291 Così una pagina lentamente si volta, si distende dalla parte opposta, aggiungendosi alle altre già finite, per ora è solamente uno strato sottile, quelle che rimangono da leggere sono in confronto un mucchio inesauribile. Ma è pur sempre un'altra pagina consumata, signor tenente, una porzione di vita.
292 Dal ciglio del sassoso pianoro Drogo infatti non si volta a guardare, senza neppure un'ombra di esitazione sprona il cavallo giù per la discesa, non accenna a voltare neanche di un centimetro la testa, fischietta una canzone con passabile disinvoltura, sebbene questo costi fatica.
293 L'uscio di casa fu aperto e Drogo sentì subito l'antico odore domestico, come quando, bambino ritornava in città dopo i mesi di estate in villa. Era odore familiare ed amico, eppure, dopo tanto tempo, vi affiorava alcunché di meschino.
294 Seduto in salotto, mentre tentava di rispondere alle tante domande, sentiva mutarsi la felicità in tristezza svogliata. La casa gli pareva vuota in confronto ad un tempo, dei fratelli uno era andato all'estero, un altro era in viaggio chissà dove, il terzo in campagna.
295 La sua camera era rimasta identica, così come l'aveva lasciata, non un libro era stato mosso, pure, gli parve di un altro. Si sedette sulla poltrona, ascoltò il rumore dei carri nella via, l'intermittente vocio che veniva dalla cucina.
296 Solo se ne stava nella sua stanza, la mamma pregava in chiesa, i fratelli erano lontani, tutto il mondo viveva dunque senza alcun bisogno di Giovanni Drogo. Aprì una finestra, vide le case grige, i tetti dopo i tetti, il cielo caliginoso.
297 Cercò in un cassetto i vecchi quaderni di scuola, un diario che aveva tenuto per anni, certe lettere; si stupì di aver scritto lui quelle cose, non se ne ricordava proprio, tutto si riferiva a strani fatti dimenticati. Si sedette al piano, tentò un accordo, riabbassò il coperchio della tastiera.
298 Tramontando le stelle, rimase Drogo, fra le nere ombre vegetali, a vedere sorgere il giorno, mentre ad una ad una le carrozze dorate si allontanavano dal palazzo. Ora anche i suonatori tacquero e un valletto andò girando per le sale abbassando le luci.
299 Ma adesso dunque non più. Adesso lui aveva salutato la mamma come una volta, con la medesima inflessione di voce, certo che al familiare rumore dei suoi passi si fosse destata. Invece nessuno gli aveva risposto fuori che il rotolio della lontana carrozza.
300 Eppure gliene restava, mentre si disponeva a entrare nel letto, una impressione amara, quasi l'affetto di una volta si fosse appannato, come se fra loro due il tempo e la lontananza avessero lentamente disteso un velo di separazione.
301 Sedettero su di un divano, di sbieco, per potersi guardare. Drogo la fissava negli occhi senza trovare le parole, ma lei vivamente portava gli sguardi attorno, un po' su lui, un po' ai mobili, un po' a un suo braccialetto di turchesi che sembrava nuovissimo.
302 Pure egli aveva un senso vago di delusione e di freddo. Non riusciva a trovare più il tono di una volta, quando si parlavano come fratelli e potevano scherzare di tutto senza ferirsi. Perché lei se ne stava così composta sul sofà e parlava con tanta grazia.
303 Era proprio Maria che parlava? Non faceva per scherzo? Quasi incredulo, Giovanni ascoltava le sue parole e ad ogni istante sperava che lei buttasse via quell'elegante sorriso, quell'atteggiamento soave, e ci facesse su una risata.
304 Il pianoforte suonava con immutata pena. Giovanni guardava la striscia di sole sul tappeto, pensava alla Fortezza, immaginò la neve che si scioglieva, il gocciolio sulle terrazze, la povera primavera della montagna, che conosce solo piccoli fiori nei prati e profumi di fienagioni trasportati dal vento.
305 La striscia di sole, percorso tutto il tappeto, ora saliva progressivamente lungo gli intarsi di uno scrittoio. Il pomeriggio già moriva, la voce del pianoforte si era fatta fioca, fuori del giardino un uccellino isolato ricominciava a cantare.
306 Drogo fissava gli alari del camino, esattamente identici a un paio che c'erano nella Fortezza; la coincidenza gli dava una sottile consolazione come se ciò dimostrasse che, dopo tutto, Fortezza e città erano un mondo solo, con uguali abitudini di vita.
307 Quattro anni di Fortezza bastavano a dare, per consuetudine, il diritto a una nuova destinazione, ma Drogo, per evitare un presidio lontano e rimanere nella propria città, sollecitò ugualmente un colloquio a carattere privato col comandante della Divisione.
308 Era stata la mamma anzi a insistere per questo colloquio; diceva che bisognava farsi avanti per non essere dimenticati, nessuno certo si sarebbe spontaneamente curato di lui, Giovanni, se egli non si fosse mosso; e gli sarebbe toccato probabilmente un altro triste presidio di confine.
309 Il generale se ne stava in un immenso studio, seduto dietro un tavolone, fumando un sigaro; ed era un giorno qualunque, forse di pioggia, forse soltanto coperto. Il generale era vecchiotto e fissò benignamente il tenente Drogo attraverso il monocolo.
310 Il passo di un cavallo rimonta la valle solitaria e nel silenzio delle gole produce una vasta eco, i cespugli in cima ai roccioni non si muovono, ferme stanno le gialle erbette, anche le nubi passano nel cielo con speciale lentezza.
311 E' proprio lui, adesso che si è avvicinato lo si riconosce bene, e sulla faccia non si legge alcun particolare dolore. Non si è ribellato, dunque, non ha dato le dimissioni, ha mandato giù l'ingiustizia senza fiatare, e se ne ritorna al solito posto.
312 Giovanni Drogo saliva alla solitaria Fortezza come quel giorno di settembre, quel giorno lontano. Solo che adesso dall'altra parte del vallone non avanzava nessun altro ufficiale e al ponte, dove le due strade si congiungevano, il capitano Ortiz non gli veniva più incontro.
313 Tornava alla Fortezza per rimanerci chissà mai quanto tempo ancora, proprio nei giorni in cui molti compagni la lasciavano per sempre. I compagni erano stati più svelti, Drogo pensava, ma non era poi escluso che fossero realmente migliori: poteva anche essere questa la spiegazione.
314 Quanto più tempo era passato, tanto più il forte aveva perduto importanza. Nei tempi lontani forse era stato un presidio di impegno o almeno lo si considerava tale. Adesso, ridotta a metà la forza, era soltanto uno sbarramento di sicurezza, escluso strategicamente da ogni piano di guerra.
315 Lo si manteneva unicamente per non lasciare sguarnito il confine. Dalla pianura del nord non si ammetteva eventualità di alcuna minaccia, tutt'al più poteva comparire al valico qualche carovana di nomadi. Cosa sarebbe diventata l'esistenza lassù.
316 Che vita noiosa, adesso. Probabilmente l'allegro Morel se ne sarebbe andato fra i primi, in pratica non sarebbe rimasto a Drogo nessun amico. E poi sempre lo stesso servizio di guardia, le solite partite a carte, le solite scappate al paese più vicino per bere un po' e fare mediocremente all'amore.
317 Alla Fortezza trovò molte cose cambiate. Nell'imminenza di tante partenze, regnava dovunque grande animazione. Non si sapeva ancora chi fossero i destinati a partire e gli ufficiali, che avevano quasi tutti domandato il trasferimento, vivevano in ansiosa attesa, dimenticando le cure di un tempo.
318 Anche Filimore — lo si sapeva di certo — doveva lasciare la Fortezza e questo contribuiva a turbare il ritmo del servizio. L'irrequietudine si era perfino propagata ai soldati, dovendo una gran parte delle compagnie, non ancora fissata, discendere al piano.
319 Solamente Ortiz, fra i tanti, non appariva cambiato. Ortiz non aveva chiesto di andarsene, da parecchi anni non si era più interessato della faccenda, la notizia che il presidio veniva ridotto era arrivata a lui dopo tutti gli altri e per questo egli non aveva fatto in tempo ad avvertire Drogo.
320 Solamente Morel, quando in un mattino di sole, nel centro del cortile, presentò il suo plotone in partenza al colonnello comandante, e abbassò salutando la sciabola, soltanto a lui brillarono gli occhi e la voce, nel dare i comandi, ebbe un tremito.
321 Poi rientrò negli androni della Fortezza, freddi anche d'estate, che di giorno in giorno si facevano più deserti. Al pensiero che Morel era partito, la ferita dell'ingiustizia sofferta si era riaperta improvvisamente e gli doleva.
322 L'ultima compagnia che doveva partire era schierata nel cortile, tutti pensavano che il giorno dopo si sarebbe sistemata definitivamente la nuova vita a guarnigione ridotta, c'era una speciale impazienza di finire quella eterna storia dei saluti, quella rabbia di veder andarsene gli altri.
323 Il tenente Simeoni si trovava da tre anni alla Fortezza e sembrava un buon ragazzo, un po' pesante, rispettoso delle autorità e amante degli esercizi fisici. Avanzatosi nel cortile, egli si guardava attorno quasi con ansia, in cerca di qualcuno a cui dire una cosa.
324 Finalmente, dopo le brevi parole di Nicolosi e le ultime fanfare, la compagnia equipaggiata da lunga marcia uscì a passi pesanti dalla Fortezza, avviandosi verso la valle. Era un giorno di settembre, il cielo era grigio e triste.
325 Appoggiati i gomiti al parapetto, Drogo guardò attentamente il deserto e attraverso il cannocchiale, uno strumento privato di Simeoni, distingueva benissimo i sassi, gli avvallamenti, le rade macchie di arbusti, benché fossero straordinariamente lontani.
326 Un pezzo dopo l'altro, Drogo perlustrò il triangolo visibile del deserto e stava per dire di no, che non riusciva a vedere niente, quando proprio in fondo, là dove ogni immagine svaniva entro alla cortina perenne di nebbia, gli parve di scorgere una piccola macchia nera che si muoveva.
327 Erano soli, sul ciglio del cammino di ronda. Le sentinelle, molto più distanziate di una volta, camminavano su e giù per il tratto rispettivamente fissato. Drogo guardò ancora verso il settentrione; le rocce, il deserto, le nebbie in fondo, tutto pareva vuoto di senso.
328 In quei giorni c'erano altre cose da pensare. La diminuzione di organico obbligava a diradare, lungo il ciglione delle mura, le forze disponibili, e si continuavano a fare diverse prove per ottenere, con minori mezzi, un servizio di sicurezza quasi altrettanto efficace di prima.
329 Il puntino nero che si muoveva agli estremi confini della pianura continuò a essere considerato uno scherzo. Ben pochi si fecero prestare da Simeoni il cannocchiale per vedere anche loro, e questi pochi dissero di non avere scorto nulla.
330 Poi una sera Simeoni andò nella stanza di Drogo a chiamarlo. Già era scesa la notte e si era compiuto il cambio della guardia. Lo sparuto drappello della Ridotta Nuova era tornato e la Fortezza si disponeva alla veglia, un'altra notte inutilmente sprecata.
331 Drogo puntò ancora il cannocchiale, cercò il lontanissimo lume, lo stette a guardare qualche istante, poi alzò lo strumento e si mise a osservare per curiosità le stelle. In numero sterminato esse riempivano ogni parte del cielo, bellissimo a vedersi.
332 Di giorno in giorno Drogo rimandava la decisione, si sentiva del resto ancora giovane, appena venticinque anni. Quell'ansia sottile lo inseguiva tuttavia senza riposo, adesso poi c'era la storia del lume nella pianura del nord, poteva anche darsi che Simeoni avesse ragione.
333 Nelle notti successive, del resto, non si vide più il lume misterioso, né di giorno si riuscì più a distinguere alcun movimento all'estremità della pianura. Il maggiore Matti, salito per curiosità sul ciglio della bastionata, si fece dare il cannocchiale da Simeoni e invano perlustrò il deserto.
334 Il giorno dopo si misero a guardare insieme, alternandosi nell'uso del cannocchiale. In realtà non si vedeva altro che tre o quattro minime macchioline le quali si spostavano con grande lentezza. Era già difficile rendersi conto di questi movimenti.
335 Bisognava prendere due tre punti di riferimento, l'ombra di un macigno, il ciglione di una collinetta, e fissarne le proporzionali distanze. Dopo parecchi minuti si vedeva che questa proporzione era cambiata. Segno che il puntino aveva mutato posizione.
336 Lo spostamento delle macchioline avveniva quasi sempre sulla medesima linea, in su e in giù. Simeoni pensava che fossero carri per il trasporto di sassi o ghiaia; gli uomini — lui diceva — sarebbero risultati troppo piccoli a quella distanza per poter essere visti.
337 Sebbene Simeoni, per la mancanza di ogni allegria e la pedante conversazione, non gli fosse specialmente simpatico, Giovanni nelle ore libere stava quasi sempre insieme con lui e pure alla sera, nelle sale degli ufficiali, i due stavano alzati fino a tarda ora a discutere.
338 Simeoni aveva già fatto un preventivo. Ammesso pure che i lavori procedessero a rilento e che la distanza fosse anche maggiore di quella comunemente ammessa, sarebbero bastati sei mesi, diceva, perché la strada si avvicinasse a un tiro di cannone dalla Fortezza.
339 Questo gradone di solito si confondeva col resto della pianura per l'identità di colore, ma talora le ombre della sera o banchi di nebbia ne rivelavano la presenza. Esso divallava verso il nord, non si sapeva se ripido né quanto profondo.
340 Dal ciglio superiore di questo avvallamento fino ai piedi delle montagne, là dove si alzava il cono roccioso della Ridotta Nuova, il deserto si stendeva uniforme e piatto, interrotto soltanto da qualche fessura, da mucchi di sfasciumi, da brevi zone di canneto.
341 Arrivati con la strada sotto il gradone — prevedeva Simeoni — i nemici avrebbero potuto senza difficoltà compiere il restante tratto quasi di un balzo, approfittando di una notte nuvolosa. Il terreno era abbastanza liscio e compatto per permettere anche alle artiglierie di procedere agevolmente.
342 E se la strada non avesse avuto alcun intento aggressivo? Se per esempio essa venisse costruita a scopi agricoli, per la coltivazione della sterminata landa fino allora sterile e disabitata? O semplicemente se i lavori si fossero fermati dopo uno o due chilometri.
343 Simeoni scuoteva il capo. Il deserto era troppo pietroso per poter essere coltivato, rispondeva. Il Regno del Nord aveva del resto immense praterie abbandonate che servivano solo da pascoli; il terreno qui sarebbe stato assai più propizio a un'impresa del genere.
344 Simeoni garantiva che in certe giornate limpide, verso il tramonto, quando le ombre si allungavano grandemente, era riuscito a distinguere la striscia rettilinea della massicciata. Drogo però non l'aveva vista, per quanto si fosse sforzato.
345 Fittissima la neve scendeva dal cielo depositandosi sulle terrazze e facendole bianche. Guardandola, Drogo sentì più acuta la solita ansia, invano cercava di scacciarla pensando alla propria giovane età, ai moltissimi anni che gli rimanevano.
346 Il tempo, inesplicabilmente, si era messo a correre sempre più veloce, inghiottiva uno sull'altro i giorni. Bastava guardarsi attorno che già scendeva la notte, il sole girava di sotto e ricompariva dall'altra parte a illuminare il mondo pieno di neve.
347 Gli altri, i compagni, sembravano non accorgersene. Facevano il solito loro servizio senza entusiasmo, si rallegravano anzi quando sugli ordini del giorno compariva il nome di un mese nuovo, quasi avessero fatto un guadagno. Tanto di meno da passare alla Fortezza Bastiani, calcolavano.
348 Chi aveva fatto la spia? Chi aveva avvertito il Comando superiore, giù in città? Tutti pensarono istintivamente a Matti, lui solo poteva essere stato, sempre col regolamento alla mano per soffocare ogni cosa piacevole, ogni tentativo di personale respiro.
349 Giovanni ebbe invece l'istintiva certezza che l'ordine del tenente colonnello lo riguardasse personalmente. Ancora una volta le cose della vita si combinavano esattamente contro di lui. Che male c'era se lui restava qualche ora a osservare il deserto.
350 Era ansioso Drogo, quel giorno, di sentire il parere di Simeoni, ma aspettò fino a sera, per non dare nell'occhio, qualcuno certo sarebbe andato a riferirlo immediatamente. Lo stesso Simeoni del resto non era venuto per mezzogiorno alla mensa, e Giovanni non l'aveva visto da nessuna altra parte.
351 Nessuno dei due quella sera era di servizio. Giovanni si sedette su una poltrona, di fianco alla porta delle sale, per abbordare il compagno all'uscita. E notò come Simeoni, durante il gioco, lo adocchiasse di sfuggita, cercando di non farsi vedere.
352 Simeoni giocò fino a tardi, molto più tardi del solito, come non aveva mai fatto. Continuava a gettare occhiate verso la porta, sperava che Drogo si fosse stancato di aspettare. Alla fine, quando tutti se ne andarono, dovette anche lui alzarsi e dirigersi verso l'uscita.
353 Camminarono un poco in silenzio, fra i riflessi delle rade lanterne attaccate simmetricamente ai due muri. Il gruppo degli altri ufficiali si era già allontanato, si udivano le loro voci confuse provenire dalla lontana penombra.
354 Di giorno in giorno Drogo sentiva aumentare questa misteriosa rovina, e invano cercava di trattenerla. Nella vita uniforme della Fortezza gli mancavano punti di riferimento e le ore gli sfuggivano di sotto prima che lui riuscisse a contarle.
355 C'era poi la speranza segreta per cui Drogo sperperava la migliore parte della vita. Per alimentarla sacrificava leggermente mesi su mesi, e mai bastava. L'inverno, il lunghissimo inverno della Fortezza, non fu che una specie di acconto.
356 Al principio di maggio, per quanto scrutasse la pianura col migliore dei cannocchiali d'ordinanza, Giovanni non riusciva ancora a scorgere alcun segno di attività umana; neanche il lume di notte e sì che i fuochi si vedono facilmente anche a smisurate distanze.
357 Finalmente una sera — ma quanto tempo c'era voluto — un lumicino tremolante apparve entro la lente del cannocchiale, fioco lume che sembrava palpitare moribondo e invece doveva essere, calcolata la distanza, una rispettabile illuminazione.
358 Si cominciò poi a scorgere anche di giorno, sul biancastro fondo del deserto, un movimento di piccoli punti neri, così come l'anno prima, solo che adesso il cannocchiale era meno potente e perciò gli stranieri dovevano essersi fatti molto più vicini.
359 In settembre il lume del presunto cantiere veniva scorto distintamente, nelle notti serene, anche da gente di vista normale. A poco a poco, fra i militari si riprese a parlare della pianura del nord, degli stranieri, di quegli strani movimenti e luci notturne.
360 Un palo è piantato sul ciglio del gradone che taglia longitudinalmente la pianura del nord, a neppure un chilometro di distanza dalla Fortezza. Di là fino al cono roccioso della Ridotta Nuova il deserto si stende uniforme e compatto, così da permettere alle artiglierie di procedere liberamente.
361 Fin là sono arrivati gli stranieri con la loro strada. Il grande lavoro è finalmente compiuto, ma a che terribile prezzo! Il tenente Simeoni aveva fatto un preventivo, aveva detto sei mesi. Ma sei mesi non sono bastati per la costruzione, né sei mesi, né otto, né dieci.
362 La strada è ormai finita, i convogli nemici possono scendere dal settentrione al galoppo serrato, per raggiungere le mura della Fortezza; dopo non resta che attraversare l'ultimo tratto, poche centinaia di metri su un terreno liscio ed agevole, ma tutto questo è costato caro.
363 Parve a Giovanni una spiegazione stupida, quasi offensiva, da lasciar pensare a uno scherzo. Ancora una mezz'ora di cavallo, fino al ponte, e poi le due strade si univano. Che bisogno dunque c'era di quelle esuberanze da borghese.
364 Esattamente come in quel giorno, pensò, con la differenza che le parti erano cambiate e adesso era lui, Drogo, il vecchio capitano che saliva per la centesima volta alla Fortezza Bastiani, mentre il tenente nuovo era un certo Moro, persona sconosciuta.
365 L'armata invece non fu vista avanzare. Attraverso il deserto dei Tartari rimaneva solo la striscia della strada, singolare segno di ordine umano nell'antichissimo abbandono. L'armata non scese all'assalto, tutto parve lasciato in sospeso, chissà mai per quanti anni.
366 Anche il volto di Giovanni cominciava a coprirsi di pieghe, i capelli diventavano grigi, il passo meno leggero; il torrente della vita lo aveva gettato oramai da una parte, verso i gorghi periferici, benché in fondo non avesse neppure cinquant'anni.
367 Quando calavano le tenebre, lo scarso numero degli uomini di guardia non bastava più a impedire che la notte si impadronisse della Fortezza. Vasti settori di mura erano incustoditi e di là penetravano i pensieri del buio, la tristezza di essere soli.
368 Avrebbe voluto parlargli, Drogo, dirgli di stare attento, di andarsene finché era in tempo; tanto più che Moro era un ragazzo simpatico e scrupoloso. Ma qualche stupidaggine interveniva sempre a impedire il colloquio e del resto sarebbe stato probabilmente tutto inutile.
369 Insensibili alla rovina degli anni, gli stranieri non si muovevano mai, come se fossero immortali e non gli importasse di sprecare per gioco lunghe stagioni. La Fortezza invece conteneva poveri uomini, indifesi contro il lavoro del tempo, e il cui termine ultimo si avvicinava.
370 Date che una volta erano parse inverosimili, da tanto lontane, si affacciavano ora improvvisamente al vicino orizzonte, ricordando le dure scadenze della vita. Ogni volta, per poter continuare, bisognava farsi un sistema nuovo, trovare nuovi termini di paragone, consolarsi con quelli che stavano peggio.
371 Sceso da cavallo, il tenente colonnello Ortiz stette in disparte con Drogo, ed entrambi tacevano non sapendo come darsi l'addio. Poi uscirono parole stentate e banali, quanto diverse e più povere da ciò ch'essi avevano in cuore.
372 Si volta pagina, passano mesi ed anni. Quelli che furono i compagni di scuola di Drogo sono quasi stanchi di lavorare, essi hanno barbe quadrate e grige, camminano con compostezza per le città salutati rispettosamente, i loro figli sono uomini fatti, qualcuno è già nonno.
373 Per fortuna Drogo si era fatto amico del dottor Rovina e aveva ottenuto la sua complicità per poter rimanere. Una oscura superstizione gli diceva che se avesse lasciato adesso la Fortezza, per malattia, mai più sarebbe ritornato.
374 Questo pensiero gli era motivo di angoscia. Vent'anni prima sì avrebbe voluto andarsene, mettersi nella placida e brillante vita di guarnigione, con le manovre estive, le esercitazioni di tiro, le gare a cavallo, i teatri, le società, le belle signore.
375 Mancavano pochi anni alla sua messa in pensione, la carriera era esaurita, tutt'al più gli potevano dare un posto in qualche Comando, tanto perché terminasse il servizio. Gli restavano pochi anni, l'ultima riserva, e forse prima del termine poteva accadere l'avvenimento sperato.
376 Finalmente, con estremi stenti, cominciò ad affacciarsi la buona stagione. La neve sul valico si era già sciolta ma nebbie bagnate si attardavano sulla Fortezza. Ci voleva un sole potente per scacciarle, tanto intristita dall'inverno era l'aria delle valli.
377 Si lasciò prendere dalla speranza che al bel tempo corrispondesse in lui una simile ripresa di forze. Anche nelle antiche travi risuscita di primavera un residuo di vita; di qui gli innumerevoli scricchiolii che popolano quelle notti.
378 Quietamente avanzava la stupenda mattina di primavera, la striscia di sole sul pavimento andava spostandosi. Drogo la osservava di tanto in tanto, senza nessuna voglia di esaminare gli scartafacci ammucchiati su un tavolo di fianco al letto.
379 Drogo osservava una mosca che si era fermata per terra proprio sulla striscia di sole, bestia strana in quella stagione, chissà come sopravvissuta all'inverno. La osservava camminare con circospezione, quando uno batté alla porta.
380 Si aprì la porta e avanzò il vecchio caposarto Prosdocimo, tutto curvo oramai, con uno strano vestito che un giorno doveva essere stato una uniforme da maresciallo. Si fece avanti ansimando un poco, fece un segno, con l'indice destro, riferendosi a cosa di là dei muri.
381 Maledetto questo letto, si disse Drogo, eccomi bloccato qui dalla malattia. Non gli passò neppure per la mente che Prosdocimo avesse detto una storia, improvvisamente egli aveva sentito che tutto era vero, si era accorto che persino l'aria era in qualche modo cambiata, perfino la luce del sole.
382 Ban! un respiro di vento nel corridoio fece sbattere la porta malamente. Nel grande silenzio il rumore echeggiò forte e cattivo, come risposta alla preghiera di Drogo. E perché Luca non veniva, quanto ci metteva quell'imbecille a fare due rampe di scale.
383 Lo colse un'ira cocente ed amara, gli occhi gli si appannarono, dovette appoggiarsi al parapetto della terrazza, e lo fece controllandosi al massimo, perché gli altri non capissero in che stato egli era ridotto. Si sentiva orribilmente solo, fra gente nemica.
384 Guardò nel cannocchiale il visibile triangolo di deserto, sperò di non scorgere nulla, che la strada fosse deserta, non ci fosse alcun segno di vita; questo si augurava Drogo dopo aver consumato la vita nell'attesa del nemico.
385 Sperava di non scorgere nulla e invece una striscia nera attraversava obliquamente il fondo biancastro della pianura e questa striscia si muoveva, un denso brulichio di uomini e convogli che scendeva verso la Fortezza. Altro che le miserabili file di armati al tempo della delimitazione del confine.
386 Passarono un giorno e una notte, il maggiore Giovanni Drogo giaceva nel letto, ogni tanto giungeva il ritmico tonfo della cisterna e nessun altro rumore, benché in tutta la Fortezza crescesse ad ogni minuto un ansioso fermento.
387 Già la striscia di sole sul pavimento aveva fatto ampio giro, dovevano essere almeno le undici, voci inconsuete si alzavano dal cortile e Drogo giaceva immobile, con gli sguardi al soffitto, quando entrò nella camera il tenente colonnello Simeoni, comandante della Fortezza.
388 Un'ira tremenda si ingorgò nel petto di Drogo. Lui, che aveva buttato via le cose migliori della vita per aspettare i nemici, che da più di trent'anni si era nutrito di quell'unica fede, lo cacciavano via proprio adesso, che finalmente la guerra arrivata.
389 Drogo lo guardò agghiacciato. A tanto arrivava dunque Simeoni? Voleva spedir via lui Drogo per avere una stanza libera? Unicamente per questo? Altro che premura e amicizia. Doveva capirlo fin da principio, pensò Drogo, doveva bene aspettarselo da una canaglia simile.
390 Così disse e se n'andò in fretta, deliberatamente, per non lasciare a Drogo il tempo per nuove obiezioni. Chiuse la porta con grande precipitazione, si allontanò per il corridoio a passi svelti, da persona soddisfatta di sé, che domina perfettamente la situazione.
391 Così come in quei giorni lontani quando erano giunti gli stranieri per delimitare i confini, come allora c'è una sospensione di animi, fra alterni soffi di paura e di gioia. Comunque nessuno ha il tempo per ricordarsi di Drogo, il quale sta vestendosi, aiutato da Luca, e si prepara a partire.
392 Come carrozza era effettivamente una dignitosa carrozza, perfino esagerata su quelle rustiche strade. Poteva sembrare di un ricco signore se non ci fosse stato sugli sportelli lo stemma di un reggimento. In serpa erano due soldati, il cocchiere e l'attendente di Drogo.
393 Nessuno, in mezzo al trambusto della Fortezza, dove già arrivavano i primi scaglioni di rinforzi, fece molta attenzione a un ufficiale magro, dal volto smunto e giallastro, che scendeva lentamente le scale, si avviava all'andito di ingresso e usciva fuori dove era ferma la carrozza.
394 Salito che fu in carrozza, Drogo diede invece subito ordine di partire. Aveva fatto abbassare il soffietto per respirare di più, si era avvolto attorno alle gambe due o tre coperte scure sulle quali spiccava lo scintillio della sciabola.
395 Traballando sui sassi, la carrozza si avviò per la sassosa spianata, la via di Drogo volgendo così all'ultimo termine. Voltato da un lato sul sedile, la testa dondolando a ogni urto delle ruote, Drogo fissava i muri gialli della Fortezza che si facevano sempre più bassi.
396 Gli occhi di Drogo fissavano come non mai le giallastre pareti della Fortezza, le sagome geometriche di casematte e polveriere. Lacrime lente e amarissime calavano giù per la pelle raggrinzita, tutto finiva miseramente e non restava nulla da dire.
397 Il sole era già sulla via discendente, pur rimanendogli parecchia strada da fare, i due soldati in serpa chiacchieravano tranquillamente, indifferenti al rimanere o al partire. Essi avevano preso la vita come veniva, senza angustiarsi con pensieri assurdi.
398 La carrozza, di ottima costruzione, una vera carrozza da malato, oscillava ad ogni buca del terreno come delicata bilancia. E la Fortezza, nell'insieme del panorama, si faceva sempre più piccola e piatta, sebbene le sue mura risplendessero stranamente in quel pomeriggio di primavera.
399 Giunse verso le cinque a una piccola locanda, là dove la strada correva sul fianco della gola. In alto, come un miraggio si levavano caotiche creste di erba e di terra rossa, monti desolati dove forse mai era stato l'uomo. Nel fondo correva il torrente.
400 La carrozza si fermò sul breve piazzale dinanzi alla locanda proprio mentre passava un battaglione di moschettieri. Drogo vide passargli attorno volti giovanili, rossi per il sudore e la fatica, occhi che lo fissavano con meraviglia.
401 Aspettò che il battaglione fosse interamente passato, la polvere sollevata dai soldati ricaduta sui loro passi, il rombo dei loro carriaggi coperto dalla voce del torrente. Poi scese adagio dalla carrozza, appoggiandosi alle spalle di Luca.
402 Sulla soglia era seduta una donna, intenta a lavorare di calza e ai suoi piedi dormiva, in una rustica culla, un bambino. Drogo guardò stupito quel sonno meraviglioso, così diverso da quello degli uomini grandi, così delicato e profondo.
403 Non erano ancora nati in quell'essere i torbidi sogni, la piccola anima navigava spensierata senza desideri o rimorsi per un'aria pura e quietissima. Drogo stette fermo a rimirare il bambino dormiente, una acuta tristezza gli entrava nel cuore.
404 Cercò di immaginare se stesso immerso nel sonno, singolare Drogo che mai egli aveva potuto conoscere. Si prospettò l'aspetto del proprio corpo, bestialmente assopito, scosso da oscuri affanni, il respiro greve, la bocca socchiusa e cadente.
405 Si trovò seduto su di una larga poltrona, in una camera da letto; ed era una sera stupenda che lasciava entrare dalla finestra l'aria profumata. Drogo guardava atono il cielo che si faceva sempre più azzurro, le ombre violette del vallone, le creste ancora immerse nel sole.
406 Doveva essere quella una sera di felicità per gli uomini anche di media fortuna. Giovanni pensò alla città nel crepuscolo, le dolci ansie della nuova stagione, giovani coppie nei viali lungo il fiume, dalle finestre già accese, accordi di pianoforte, il fischio di un treno da lontano.
407 Immaginò i fuochi del bivacco nemico in mezzo alla pianura del nord, le lanterne della Fortezza che oscillavano al vento, la notte insonne e meravigliosa prima della battaglia. Tutti in un modo o nell'altro avevano qualche motivo, anche piccolo, per sperare, tutti fuori che lui.
408 Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, come per rotto incanto. Il vortice si era fatto negli ultimi tempi sempre più intenso, poi improvvisamente più nulla, il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente.
409 Dagli estremi confini egli sentiva avanzare su di sé un'ombra progressiva e concentrica, era forse questione di ore, forse di settimane o di mesi; ma anche i mesi e le settimane sono ben povera cosa quando ci separano dalla morte.
410 Fuori il cielo era diventato di un azzurro intenso, all'occidente tuttavia restava una striscia di luce, sopra i violetti profili delle montagne. E nella camera era entrato il buio, si distinguevano unicamente le sagome minacciose dei mobili, il biancore del letto, la lucida sciabola di Drogo.
411 Vendicati finalmente della sorte, nessuno canterà le tue lodi, nessuno ti chiamerà eroe o alcunché di simile, ma proprio per questo vale la pena. Varca con piede fermo il limite dell'ombra, diritto come a una parata, e sorridi anche, se ci riesci.
412 Povera cosa gli risultò allora quell'affannarsi sugli spazi della Fortezza, quel perlustrare la desolata pianura del nord, le sue pene per la carriera, quegli anni lunghi di attesa. Non c'era neanche più bisogno di invidiare Angustina.
413 Sì, Angustina era morto in cima a una montagna nel cuore della tempesta, se n'era andato da par suo, davvero con molta eleganza. Ma assai più ambizioso era finire da prode nelle condizioni di Drogo, mangiato dal male, esiliato fra ignota gente.
414 Ma poi gli venne in mente: e se fosse tutto un inganno? se il suo coraggio non fosse che una ubriacatura? se dipendesse solo dal meraviglioso tramonto, dall'aria profumata, dalla pausa dei dolori fisici, dalle canzoni al piano di sotto.
415 No, non pensarci. Drogo, adesso basta tormentarsi, il più oramai è stato fatto. Anche se ti assaliranno i dolori, anche se non ci saranno più le musiche a consolarti e invece di questa bellissima notte verranno nebbie fetide, il conto tornerà lo stesso.
416 Lui ha pensato che fosse notte ancora, altrimenti dopo un giorno qualcuno avrebbe pur dovuto trovarlo. La luce della luna, penetrando dal ponte, illuminava quel luogo, che si dava a divedere come il cucinotto di bordo, col suo paiolo pendulo sopra il forno.
417 L'ambiente aveva due porte, una verso il bompresso, l'altra sul ponte. E alla seconda si era affacciato, scorgendo come di giorno i sartiami bene accomodati, l'argano, gli alberi con le vele raccolte, pochi cannoni ai sabordi, e la sagoma del castello di poppa.
418 Una bella vicenda per un naufrago: con i piedi sul solido e terraferma a portata di braccio. Ma Roberto non sapeva nuotare, entro poco avrebbe scoperto che a bordo non c'era nessuna scialuppa, e la corrente aveva frattanto allontanato la tavola con cui era arrivato.
419 Per cui al sollievo per la morte scampata si accompagnava ormai lo sgomento per quella triplice solitudine: del mare, dell'Isola vicina e della nave. Ohé di bordo, deve aver tentato di gridare, in tutte le lingue che conosceva, scoprendosi debolissimo.
420 Deve essersi rimesso presto in forza, o era in forza quando ne scriveva, poiché si diffonde — letteratissimo — sulle delizie del suo festino, mai n'ebbe Olimpo pari ai suoi banchetti, soave ambrosia a me dall'imo ponto, il mostro a cui la morte ora m'è vita.
421 Sole della mia ombra, luce della mia notte, perché il cielo non mi ha depresso in quella tempesta che aveva così fieramente eccitato? Perché sottrarre al mare ingordo questo mio corpo, se poi in questa avara solitudine vieppiù sfortunata, orridamente naufragar doveva l'anima mia.
422 Io dico che questa prima lettera l'ha scritta dopo, e prima si è guardato intorno — e che cosa abbia visto lo dirà nelle lettere seguenti. Ma anche qui, come tradurre il diario di qualcuno che vuol rendere visibile per metafore perspicaci quello che vede male, mentre va di notte con gli occhi malati.
423 Roberto dovrebbe aver iniziato il suo censimento nella seconda sera. Ormai aveva gridato abbastanza per essere sicuro che non ci fosse nessuno a bordo. Ma, e ne temeva, avrebbe potuto trovar dei cadaveri, qualche segno che giustificasse quell'assenza.
424 Si era mosso con circospezione, e dalle lettere è difficile dire in che direzione: nomina in modo impreciso la nave, le sue parti e gli oggetti di bordo. Alcuni gli sono familiari e li ha sentiti menzionare dai marinai, altri ignoti, e li descrive per quel che gli appaiono.
425 Quella sera aveva puntato subito oltre il quartiere di poppa, aveva aperto la porta del castello con ritegno, come se dovesse chiedere permesso a qualcuno... Accanto alla barra del timone, la bussola gli disse che il canale tra le due terre si stendeva da sud a nord.
426 Poi si era ritrovato in quello che oggi chiameremmo il quadrato, una sala a forma di L, e un'altra porta lo aveva immesso nella camera del capitano, col suo ampio finestrone sopra il timone e gli accessi laterali alla galleria.
427 Doveva essere arrivato sulla nave quasi nudo: ritengo che per prima cosa, bruttato com'era dalla salsedine marina, si sia lavato in cucina, senza chiedersi se quell'acqua fosse l'unica a bordo, e poi abbia trovato in un cofano un bell'abito del capitano, quello da conservarsi per lo sbarco finale.
428 Ma, almeno nel castello, di topi nessun sentore. Forse si erano radunati nella sentina, coi loro occhi rosseggianti nel buio, in attesa di carne fresca. Roberto si disse che, se c'erano, bisognava saperlo subito. Se erano topi normali e in numero normale, si poteva convivere.
429 Bisognava assicurarsi che di incantesimo non si trattasse: Roberto aveva imparato in viaggio cosa si fa con i frutti d oltremare. Usando il coltellaccio come una scure, aprì d'un solo colpo una noce, bevve il liquido fresco, poi frantumò il guscio, rosicchiò la manna che si celava sotto la scorza.
430 Immagino che a quei tempi, e su quei mari, fossero più le navi che naufragavano che quelle che tornavano in porto; ma a chi accadeva per la prima volta, l'esperienza doveva esser fonte d'incubi ricorrenti, che l'abitudine a ben concepire doveva rendere pittoreschi come un Ultimo Giudizio.
431 Sin dalla sera prima l'aria si era come ammalata di catarro, e pareva che l'occhio del cielo, pregno di lacrime, già non riuscisse più a sostener la vista della distesa delle onde. Il pennello della natura aveva ormai scolorito la linea dell'orizzonte e abbozzava lontananze di provincie indistinte.
432 Roberto, le cui viscere già vaticinavano l'imminente tremoto, si butta sul giaciglio, cullato ormai da una nutrice di ciclopi, si assopisce tra sogni irrequieti di cui sogna nel sogno di cui dice, e cosmopea di stupori accoglie in grembo.
433 Si sveglia al baccanale dei tuoni e alle urla dei marinai, poi fiotti d'acqua gli invadono il giaciglio, il dottor Byrd si affaccia correndo e gli grida di portarsi sul ponte, e di tenersi bene aggrappato a qualsiasi cosa stia per un poco più ferma di lui.
434 Quasi la sua vita si fosse svolta tra due assedi, l'uno immagine dell'altro, con la sola differenza che ora, al congiungersi di quel cerchio di due lustri abbondanti, il fiume era troppo largo e circolare anch'esso — così da rendere impossibile ogni sortita — Roberto rivisse i giorni di Casale.
435 Di questo carmelitano si sa una cosa sola, e non è un caso che Roberto ne faccia cenno. Un giorno il vecchio Pozzo si era tagliato pulendo una spada, e vuoi che l'arma fosse arrugginita, vuoi che si fosse lesa una parte sensibile della mano o delle dita, la ferita gli dava forti dolori.
436 Il carmelitano si era compiaciuto per lo stupore di tutti, e aveva detto che il segreto di quella sostanza gli era stato rivelato da un arabo, e si trattava di un medicamento ben più potente di quello che gli spagirici cristiani chiamavano unguentum armarium.
437 Quando gli avevano domandato perché mai la polvere non andasse posta sulla ferita bensì sulla lama che l'aveva prodotta, aveva risposto che così agisce la natura, tra le cui forze più forti vi è la simpatia universale, che governa le azioni a distanza.
438 E aveva aggiunto che, se la cosa poteva apparire difficile da credere, non v'era che da pensare al magnete, il quale è una pietra che attira a sé la limatura di metallo, o alle grandi montagne di ferro, che coprono il nord del nostro pianeta, le quali attirano l'ago della bussola.
439 Qualsiasi creatura che nella propria fanciullezza sia stata testimone di tanto, non può che rimanerne segnata per tutta la vita, e vedremo presto come il destino di Roberto sia stato deciso dalla sua attrazione verso il potere attrattivo di polveri e unguenti.
440 D'altra parte non è questo l'episodio che abbia maggiormente marcato l'infanzia di Roberto. Ve n'è un altro, e a parlar propriamente non è un episodio, ma una sorta di ritornello di cui il ragazzo aveva serbato sospettosa memoria.
441 A poco a poco a questo fratello perduto aveva dato anche un nome, Ferrante, e aveva preso ad attribuirgli piccoli crimini di cui veniva accusato a torto, come il furto di un dolce o l'indebita liberazione di un cane dalla sua catena.
442 Una volta, per esempio, Roberto, per provare un'ascia nuova che il fabbro aveva appena consegnato, in parte anche per ripicco di non so quale ingiustizia che riteneva di aver subito, aveva abbattuto un alberello da frutto che il padre aveva da poco piantato con grandi speranze per le stagioni a venire.
443 Quando si era reso conto della gravità della sua scioccaggine, Roberto ne aveva configurato conseguenze tremende, come minimo una vendita ai Turchi che lo facessero remare a vita sulle loro galere, e si disponeva a tentare la fuga e a finir la sua vita come bandito sulle colline.
444 Gli spagnoli erano però impazienti e, nell'attesa che l'Imperatore prendesse una decisione, Casale era già stata assediata una prima volta da Gonzalo de Córdoba e ora, per la seconda volta, da un'imponente armata di spagnoli e imperiali comandata dallo Spinola.
445 Subito dopo, quasi a confermargli che il creato altro non è che opera di quella danza d'atomi, ebbe l'impressione di trovarsi in un giardino e si rese conto che, da che era entrato laggiù, era stato assalito da una folla di profumi, ben più forti di quelli che gli erano pervenuti prima dalla riva.
446 Un giardino, un verziere coperto: ecco che cosa gli uomini scomparsi della Daphne avevano creato in quella zona, per condurre in patria fiori e piante delle isole che stavano esplorando, permettendo che il sole, i venti e le piogge consentissero loro di sopravvivere.
447 Se il vascello avrebbe poi potuto conservare per mesi di viaggio quel bottino silvestre, se la prima tempesta non l'avrebbe avvelenato di sale, Roberto non sapeva dire, ma certamente il fatto che quella natura fosse ancora in vita confermava che — come per il cibo — la riserva era stata fatta di recente.
448 Preso dalla suggestione del luogo Roberto non si chiedeva di quale pioggia le foglie contenessero i resti, visto che da almeno tre giorni sicuramente non pioveva. I profumi che lo stordivano lo disponevano a ritener naturale qualsiasi sortilegio.
449 Gli parve, procedendo, che il verziere terminasse ai piedi di un tronco d'alto fusto che perforava il ponte superiore, poi comprese che era giunto più o meno al centro della nave, dove l'albero di maestra si innervava sino all'infima carena.
450 Del resto, si disse, che qualcuno qui prima ci fosse e ora non ci sia più, è assodato. Che ci fosse uno o dieci giorni prima del mio arrivo, non cambia in nulla la mia sorte, al massimo la rende più beffarda: naufragando un giorno prima avrei potuto unirmi ai marinai della Daphne, ovunque siano andati.
451 Era opportuno che l'operazione fosse ripetuta su altre case: anche dai bastioni si poteva ora vedere che i napoletani avevano iniziato a scavare trincee bordandole di fascine e di gabbioni. Ma queste non circoscrivevano la collina, si sviluppavano verso la pianura.
452 Le tre compagnie s'accamparono nel fortino. La costruzione non era stata completata, e parte del lavoro già fatto era oramai caduto in pezzi. La truppa passò la giornata a barricare i vuoti nelle mura, ma il fortino era ben protetto da un fossato, oltre il quale furono inviate alcune sentinelle.
453 Sopraggiunta la notte, il cielo era così chiaro che le sentinelle sonnecchiavano, e neppure gli ufficiali giudicavano probabile un attacco. E invece a un tratto si udì suonare la carica e si videro apparire i cavalleggeri spagnoli.
454 Il vecchio Pozzo passò rapidamente la spada nella sinistra, trasse la pistola dal cinturone, alzò il cane e tese il braccio, tutto in modo così rapido da sorprendere lo spagnolo, che trascinato dall'impeto gli era ormai quasi sotto.
455 Sembra che Roberto rievochi questo episodio, colto da un momento di filiale pietà, fantasticando di un tempo felice in cui una figura protettiva poteva sottrarlo allo smarrimento di un assedio, ma non può evitare di ricordare quello che avvenne in seguito.
456 Ora Roberto non stava più a spidocchiarsi negli alloggiamenti dei soldati, ma alla mensa di Toiras, in mezzo a gentiluomini che venivano da Parigi, e ne ascoltava, le bravate, le rievocazioni d'altre campagne, i discorsi fatui e brillanti.
457 C'era venuto per dar vita ai suoi sogni cavallereschi, alimentati dai poemi che aveva letto alla Griva: essere di buon sangue e avere finalmente una spada al fianco significava per lui diventare un paladino che buttava la vita per una parola del suo re, o per la salvezza di una dama.
458 La battuta d'attesa doveva valere per tutti i pretendenti, ma Richelieu l'aveva presa come un affronto alla Francia. Oppure gli faceva comodo prenderla così, ma non si muoveva perché stava ancora assediando i protestanti della Rochelle.
459 La Spagna vedeva con favore quel massacro di un pugno di eretici, ma lasciava che Gonzalo ne approfittasse per assediare con ottomila uomini Casale, difesa da poco più di duecento soldati. E quello era stato il primo assedio di Casale.
460 Un commensale di Roberto ricordava in tono divertito la vicenda. Richelieu con bel sarcasmo aveva fatto chiedere al duca se preferisse Orleans o Poitiers, e intanto un ufficiale francese si presentava alla guarnigione di Susa e chiedeva alloggio per il re di Francia.
461 Il comandante savoiardo, che era uomo di spirito, aveva risposto che probabilmente sua altezza il duca sarebbe stato felicissimo di ospitare sua maestà, ma poiché sua maestà era venuto in una compagnia di tale ampiezza, gli si doveva permettere di avvisare prima sua altezza.
462 Con altrettanta eleganza il maresciallo di Bassompierre caracollando sulla neve si era scappellato davanti al suo re e, avvertendolo che i violini erano entrati e le maschere stavano alla porta, gli chiedeva il permesso di iniziare il balletto.
463 Stando così le cose, Carlo Emanuele decideva che Luigi XIII era suo ospite graditissimo, gli andava a porgere il benvenuto, e gli chiedeva solo di non perder tempo a Casale, che se ne stava già occupando lui, e di aiutarlo invece a prender Genova.
464 Né le vicende successive consentivano a Roberto di districarsi tra le ragioni di quella storia. Tradito da Carlo Emanuele, Gonzalo de Córdoba capiva di aver perduto la campagna riconosceva l'accordo di Susa, e riportava i suoi ottomila uomini nel milanese.
465 Intanto l'imperatore — e chissà quanto Olivares lo premesse in mille modi — si ricordava che Mantova era ancora sotto regime commissariale, e che Nevers non poteva né pagare né non pagare per qualcosa che ancora non gli spettava; perdeva la pazienza e mandava ventimila uomini ad assediare la città.
466 Il papa, vedendo dei mercenari protestanti scorrazzare per l'Italia, pensava subito a un altro sacco di Roma, e inviava truppe alla frontiera del mantovano. Lo Spinola, più ambizioso e risoluto di Gonzalo, decideva di riassediare Casale, ma questa volta sul serio.
467 Così educato ai primi dubbi, altri doveva conoscerne Roberto il giorno dopo. Era tornato in quell'ala del castello dove aveva dormito le prime due notti coi suoi monferrini, per riprendere il suo sacco, ma faticava a orientarsi tra cortili e corridoi.
468 Non si trattava dunque di uno specchio. Infatti si rese conto che era un finestrone, dai vetri impolverati, che dava su di uno spalto esterno, da cui si scendeva per una scala verso la corte. Dunque non aveva visto se stesso ma qualcun altro, molto simile a lui, di cui ora aveva perduto la traccia.
469 Naturalmente pensò subito a Ferrante. Ferrante lo aveva seguito o preceduto a Casale, forse era in un'altra compagnia dello stesso reggimento, o in uno dei reggimenti francesi e, mentre lui rischiava la vita nel fortino, traeva dalla guerra chissà quali vantaggi.
470 Siccome presto i primi raggi avrebbero illuminato la spiaggia rendendola insopportabile alla vista, Roberto aveva pensato di guardare là dove il sole non dominava ancora, e lungo la galleria si era portato all'altro bordo della Daphne, verso la terra occidentale.
471 Gli apparve subito come un frastagliato profilo turchese che, nel trascorrere di pochi minuti, già si stava dividendo in due strisce orizzontali: una spazzola di verzura e palme chiare già sfolgorava sotto la zona cupa delle montagne, su cui dominavano ancora ostinate le nubi della notte.
472 Quanto vedeva poteva forse bastare a giustificare il suo naufragio: non tanto per il piacere che quel mobile atteggiarsi della natura gli provocava, ma per la luce che quella luce gettava su parole che aveva udito dal Canonico di Digne.
473 Sino ad allora, infatti, si era chiesto sovente se non stesse sognando. Quello che gli stava accadendo non accadeva di solito agli umani, o poteva al massimo ricordargli i romanzi dell'infanzia: come creatura di sogno erano e la nave e le creature che vi aveva incontrato.
474 Non credo però sia stato il pudore, ma la paura della troppa luce che lo indusse a rientrare — e forse un altro richiamo. Aveva infatti udito le galline che annunciavano nuova provvista d'uova, ed ebbe l'idea di concedersi per la sera anche un pollastro allo spiedo.
475 Roberto vide trentacinque uomini che al comando del capitano Columbat si buttavano in ordine sparso contro una trincea, e il capitano spagnolo che emergeva dalla barricata e faceva loro un gran bel saluto. Columbat e i suoi, per educazione, si erano arrestati e avevano risposto con pari cortesia.
476 Poco dopo, una insegna del reggimento Pompadour gli aveva recato, legato con una corda ai polsi, un ragazzo casalese, che era stato sorpreso in una piccola torre presso al castello mentre con un panno bianco faceva segnalazioni agli assedianti.
477 Come prova di coraggio fu buona, come impresa militare pessima. Una palla lo colse in fronte e l'accasciò sulla groppa del suo Pagnufli. Una seconda scarica si levò verso la controscarpa, e Roberto sentì un colpo violento alla tempia, come un sasso, e barcollò.
478 Era stato colto di striscio, ma si divincolò dalle braccia di chi lo stava sostenendo. Gridando il nome del padre si era rizzato, e aveva scorto Pagnufli che, incerto, galoppava con il corpo del padrone esanime in una terra di nessuno.
479 Aveva, ancora una volta, portato le dita alla bocca ed emesso il suo fischio. Pagnufli aveva udito ed era tornato verso le mura, ma lentamente, a un piccolo trotto solenne, per non disarcionare il suo cavaliere che ormai non gli serrava più imperiosamente i fianchi.
480 Era rientrato nitrendo la sua pavana per il signore defunto, rendendone il corpo a Roberto, che aveva chiuso quegli occhi ancora sbarrati e terso quel volto cosparso di sangue ormai raggrumato, mentre a lui il sangue ancor vivo rigava la guancia.
481 Chi sa che il colpo non gli avesse toccato un nervo: il giorno dopo, appena uscito dalla cattedrale di Sant'Evasio in cui Toiras aveva voluto esequie solenni del signor Pozzo di San Patrizio della Griva, faceva fatica a sopportare la luce del giorno.
482 Forse gli occhi erano rossi dalle lacrime, ma fatto sta che da quel momento essi cominciarono a fargli male. Oggi gli studiosi della psiche direbbero che, essendo entrato suo padre nell'ombra, nell'ombra voleva entrare anche lui.
483 Arrestando per un attimo l'onda dei ricordi, Roberto si era accorto che aveva rievocato la morte del padre non per il proposito pietoso di tener aperta quella piaga di Filottete, ma per mero accidente, mentre rievocava lo spettro di Ferrante, evocato dallo spettro dell'Intruso della Daphne.
484 Così parlando padre Emanuele aveva condotto Roberto fuori dalla chiesa e, passeggiando, erano saliti sugli spalti, in un luogo tranquillo quella mattina, mentre ovattati colpi di cannone arrivavano dalla parte opposta della città.
485 Disgustato dei discorsi politici, Roberto era tornato da padre Emanuele qualche giorno dopo, al convento in cui abitava, dove l'indirizzarono non a una cella ma a un quartiere che gli era stato riservato sotto le volte di un chiostro silenzioso.
486 Lo trovò che conversava con due gentiluomini, uno dei quali sfarzosamente abbigliato: era vestito di porpora con alamari d'oro, mantello adorno di passamani dorati e foderato di pelo corto, farsetto bordato con una fascia rossa incrociata e un nastro di piccole pietre.
487 Padre Emanuele lo presentò come l'alfiere don Gaspar de Salazar, e d'altra parte già dal tono altezzoso e dalla foggia dei baffi e dei capelli Roberto lo aveva individuato per un gentiluomo dell'armata nemica. L'altro era il signor della Saletta.
488 Padre Emanuele girava i suoi cilindri e sfogliava nei cassetti rapido come un giocoliere, così che le metafore parevan sorgergli come per incanto, senza che si avvertisse l'ansimar meccanico che le produceva. Ma non era ancora soddisfatto.
489 Certo non potevano essere gli artisti, che nelle corti d'Europa costruivano grotte incrostate di lapislazzuli, dalle fontane mosse da segrete pompe, ad aver ispirato natura nell'inventar le terre di quei mari; né poteva essere stata la natura del Polo Sconosciuto a ispirar quegli artisti.
490 Da noi, si diceva, tutto quello che è vita vegetale ha la fragilità della foglia con la sua nervatura e del fiore che dura lo spazio di un mattino, mentre qui il vegetale sembra cuoio, materia spessa e oleosa, scaglia disposta a reagire ai raggi di soli forsennati.
491 Col cannocchiale esplorava la riva e scorgeva tra terra e mare quelle radici rampicanti, che parevano salterellare verso il cielo aperto, e cespi di frutti oblunghi che certo rivelavano la loro melassata maturità con l'apparire come bacche immature.
492 Vivere negli Antipodi significa dunque ricostruire l'istinto, sapere fare di maraviglia natura e di natura maraviglia, scoprire quanto sia instabile il mondo, che in una prima metà segue certe leggi e nell'altra leggi opposte.
493 Il cannocchiale gli permetteva di scorgere fusi, pallottole piumose, brividi neri o d'indistinta tinta, che si buttavano da un albero più alto puntando a terra con la demenza di un Icaro che volesse affrettare la propria rovina.
494 A un tratto gli parve persino che un albero, forse di arancini della Cina, sparasse in aria uno dei suoi frutti, una matassa di croco acceso, che uscì ben presto dall'occhio tondo del cannocchiale Si convinse che era effetto di un riflesso e non ci pensò più, o almeno così credette.
495 Come gli sarebbe apparsa l'Isola se un giorno vi fosse approdato? Dalla scena che vedeva dal suo palco, e dagli specimina di cui aveva trovato testimonianza sulla nave, essa era forse quell'Eden ove nei ruscelli colano latte e miele, tra un trionfo abbondante di frutti e di animali mansueti.
496 Che fosse vero se ne era accorto uscendo sul ponte, per farsi distrarre dal vento. Era quello il suo bosco, dove andava come nei boschi vanno gli amorosi infelici; ecco la sua natura fittizia, piante levigate da carpentieri d'Anversa, fiumi di tela greggia al vento, caverne calafatate, stelle d'astrolabi.
497 Poi si pentì della sua durezza nel fingere la durezza di lei, si disse che nell'impietrarne le fattezze impietriva il suo desiderio — che voleva invece vivo e insoddisfatto — e, poiché si era fatta sera, volse gli occhi all'ampia conca del cielo punteggiata di costellazioni indecifrabili.
498 Lasciato il convento si era accompagnato col signor della Saletta, il quale a sua volta accompagnava il signor di Salazar fuori dalle mura. E per giungere a quella che Salazar chiamava Puerta de Estopa, stavano percorrendo un tratto di bastione.
499 Qualche sera dopo, passando davanti a una casa, la scorse in una stanza buia al piano terra. Era seduta alla finestra per cogliere un venticello che mitigava appena l'afa monferrina, fatta chiara da una lampada, invisibile dall'esterno, posata presso al davanzale.
500 A tutta prima non l'aveva riconosciuta perché le belle chiome erano avvolte sul capo, e ne pendevano solo due ciocche sopra le orecchie. Si scorgeva solo il viso un poco chinato, un solo purissimo ovale, imperlato da qualche goccia di sudore, che pareva l'unica vera lampada in quella penombra.
501 Era passato per quella strada i giorni seguenti, senza più vederla, tranne una sola volta, ma non ne era sicuro perché essa, se era lei, stava seduta a capo chino, il collo nudo e roseo, una cascata di capelli che le coprivano il volto.
502 Una matrona le stava alle spalle, navigando per quelle onde leonine con un pettine da pecoraia, e a tratti lo lasciava per afferrare con le dita un animaletto fuggiasco, che le sue unghie facevano esclappitare in un colpo secco.
503 Roberto, non nuovo ai riti dello spidocchiamento, ne scopriva però per la prima volta la bellezza, e immaginava di poter porre le mani tra quei flutti di seta, di premere i polpastrelli su quella nuca, di baciare quei solchi, di distrugger egli stesso quelle greggi di mirmidoni che li inquinavano.
504 Altri pomeriggi e altre sere vi scorse ancora la matrona, e un'altra ragazza, ma non lei. Ne concluse che quella non era la sua casa, ma quella di una parente, presso la quale era solo andata a far qualche lavoro. Dov'ella fosse, per lunghi giorni più non seppe.
505 «Se fosse così, sareste ancora e soltanto un paesano. Ma avete spirito. Se la voleste l'avreste già presa — e sareste un bruto. No, voi volete che il vostro desiderio s'accenda, e che nel contempo si accenda anche quello di lei.
506 A quel punto Roberto pensava che ormai l'unico problema era che la Novarese sapesse leggere. Oltrepassato quel bastione, qualsiasi cosa avesse letto l'avrebbe certamente inebriata, visto che stava inebriandosi lui allo scrivere.
507 «Capirete. Ecco: rovesciamo per intanto il senso dell'appello, in effetti non siete ancor morto, diamole la possibilità di correre a soccorso di questo morente. Scrivete. Potreste forse, signora, salvarmi ancora. Vi ho donato il mio cuore.
508 Ma come posso vivere senza il motore stesso della vita? Non vi chiedo di rendermelo, che solo in vostra prigionia gode la più sublime delle libertà, ma vi prego, inviatemi in cambio il vostro, che non troverà tabernacolo più disposto per accoglierlo.
509 Messosi in cerca di colei dalla quale era così disposto a rimaner lontano, mentre alcuni colpi di cannone piovevano sulla città, incurante del pericolo, qualche giorno dopo l'aveva scorta a un angolo di strada, carica di spighe come una creatura mitologica.
510 La notte del ventinove giugno un gran frastuono aveva destato gli assediati, seguito da un rullare di tamburi: era esplosa la prima mina che i nemici erano riusciti a far brillare sotto le mura, facendo saltare una mezzaluna e seppellendo venticinque soldati.
511 Il giorno dopo, verso le sei di sera, si era udito come un temporale a ponente, e a oriente era apparso un corno dell'abbondanza, più bianco del resto del cielo, dalla punta che s'allungava e accorciava. Era una cometa, che aveva sconvolto gli uomini d'arme e indotto gli abitanti a serrarsi in casa.
512 Ma non godeva del possesso, bensì della privazione: mentre smaniava di tastare quel vago trofeo d'erudito pennello, forse Altri, sull'Isola vera — là dove essa si stendeva in forme leggiadre che la carta non aveva saputo ancora catturare — ne addentavano i frutti, si bagnavano nelle sue acque.
513 Anche a Casale sognava spazi aperti, e l'ampia conca in cui aveva visto per la prima volta la Novarese. Ma ora non era più ammalato, e quindi più lucidamente pensava che non l'avrebbe mai ritrovata, perché lui sarebbe morto tra poco, oppure era già morta lei.
514 Altre notizie gli arrivavano frattanto dal signor della Saletta. I casalesi stavano chiedendosi se non dovessero consentire ai francesi l'accesso in cittadella: avevano ormai compreso che, se si doveva impedire al nemico di entrarvi, si dovevano unire le forze.
515 Una mattina, ai primi di settembre, calò su Casale un acquazzone liberatore. Sani e convalescenti si erano portati tutti all'aperto, a prendere la pioggia, che doveva lavare ogni traccia del contagio. Era più un modo per rinfrancarsi che una cura, e il morbo continuò a infierire anche dopo il temporale.
516 Ora capace di reggersi in piedi, Roberto si azzardò fuori del convento e a un certo punto vide sulla soglia di una casa contrassegnata con la croce verde che la dichiarava come luogo contagioso, Anna Maria o Francesca Novarese.
517 Ma proprio in quel momento, dal fondo della piazza, arrivava una pattuglia spagnola, forse attirata dai rumori. D'istinto i francesi avevano posto mano alla spada, gli spagnoli videro sei nemici in armi e gridarono al tradimento.
518 Se le avanguardie spagnole si erano ben comportate, ora entrava in città il grosso dell'armata, e i casalesi dovettero vedersela con assatanati che requisivano tutto, violentavano le donne, bastonavano gli uomini, e si concedevano i piaceri della vita in città dopo mesi nei boschi e nei campi.
519 I francesi erano prossimi, e si sapeva che Mazzarini stava facendo di tutto per impedire lo scontro, su mandato del papa. Si muoveva da un esercito all'altro, tornava a conferire nel convento di padre Emanuele, ripartiva a cavallo per portar controproposte agli uni e agli altri.
520 Una fila di carri nemici stava uscendo dalla città, Toiras aveva riunito la poca cavalleria che gli era rimasta e l'aveva lanciata fuori dalle mura, ad arrestarli. Roberto aveva implorato di prender parte all'azione, ma non gli era stato concesso.
521 Era il capitano Mazzarini. Nel corso dei suoi ultimi pellegrinaggi tra l'una e l'altra sponda, aveva convinto gli spagnoli ad accettare gli accordi di Ratisbona. La guerra era finita. Casale rimaneva al Nevers, francesi e spagnoli s'impegnavano a lasciarla.
522 Mentre le schiere si scioglievano, Roberto saltò sul fido Pagnufli e corse sul luogo dello scontro mancato. Vide gentiluomini in armature dorate intenti a elaborati saluti, complimenti, passi di danza, mentre si apprestavano dei tavolinetti di fortuna per sigillare i patti.
523 Roberto cercò di ritrovare i suoi contadini. Ma dell'armata della Griva non si avevano più notizie. Alcuni dovevano essere morti di peste, ma gli altri si erano dispersi. Roberto pensò che fossero tornati a casa, e da loro sua madre aveva forse già appreso della morte del marito.
524 Se là aveva intuito un mondo senza più centro, fatto soltanto di soli perimetri, qua si sentiva davvero nella più estrema e più perduta delle periferie; perché, se un centro c'era era davanti a lui, e lui ne era il satellite immoto.
525 Avrebbe dovuto sospettarlo la notte stessa del suo cartografico abbraccio. Riavutosi, aveva sentito sete, la caraffa era vuota, ed era andato a cercare un barile d'acqua. Quelli che aveva posto a raccogliere l'acqua piovana erano pesanti, ma ce n'erano di più piccoli nella dispensa.
526 Non era acqua, e tossendo si era reso conto che il bariletto conteneva acquavite. Non sapeva dir quale, ma da buon contadino poteva dire che non era di vino. Non aveva trovato sgradevole la bevanda, e ne abusò con improvvisa allegria.
527 Non gli venne in mente che, se i bariletti nella dispensa erano tutti di quella sorta, avrebbe dovuto preoccuparsi per le sue provviste d'acqua pura. Né si chiese come mai la seconda sera aveva spillato dal primo bariletto della riserva, e l'aveva trovato pieno d'acqua dolce.
528 Solo più tardi si convinse che Qualcuno aveva posto, dopo, quel dono insidioso in modo che egli lo afferrasse per primo. Qualcuno che lo voleva in stato di ebrietà, per averlo in suo potere. Ma se questo era il piano, Roberto lo assecondò con troppo entusiasmo.
529 Alzandosi, sentiva un gran mal di capo. Per guarirlo non ebbe migliore idea che attaccarsi ancora al bariletto, e se ne staccò che stava peggio di prima. Si armò, sbagliando molte volte a infilarsi il coltello nella cintola, si fece numerosi segni di croce, e discese barcollando.
530 Può sembrare incredibile — a voi che leggete con distacco questa vicenda — ma un naufrago, tra i fumi dell'acquavite e su di una nave disabitata, se trova cento orologi che raccontano quasi all'unisono la storia del suo tempo interminabile, pensa prima alla storia che non al suo autore.
531 Fu nell'evocare le Isole di Salomone che Roberto ebbe come una rivelazione. Ma certo, gli orologi! Che ci stavano a fare tanti orologi su di una nave in rotta su mari in cui il mattino e la sera sono definiti dal corso del sole, e altro non occorre sapere.
532 Roberto lascia intravedere assai poco circa gli anni che passarono tra il suo ritorno alla Griva e il suo ingresso nella società parigina. Da sparsi accenni, se ne trae che restò ad assistere la madre, fino alla soglia dei suoi vent'anni, discutendo di mala voglia con i fattori di semine e raccolti.
533 Qui era entrato subito in contatto con gli amici del Canonico, e gli era stato concesso di frequentare uno dei luoghi più insigni della città. Cita sovente un gabinetto dei fratelli Dupuy e lo ricorda come un luogo in cui la sua mente ogni pomeriggio si apriva sempre più, a contatto con uomini di sapere.
534 Si stava educando a sfuggir l'affettazione, a usare in ogni cosa l'abilità di nascondere l'arte e la fatica, in modo che ciò che faceva o diceva apparisse come dono spontaneo, cercando di diventar maestro di quella che in Italia chiamavano sprezzata disinvoltura, e in Ispagna despejo.
535 Arthénice riceveva gli amici sdraiata nella sua camera, tra paraventi e spesse tappezzerie per proteggere gli ospiti dal freddo: essa non poteva soffrire né la luce del sole né l'ardore dei bracieri. Il fuoco e la luce diurna le riscaldavano il sangue nelle vene e le procuravano la perdita dei sensi.
536 Eppure, anche se non più giovane, quell'Ospite era il ritratto stesso della grazia, grande e ben fatta, i tratti del viso ammirevoli. Non si poteva descrivere la luce dei suoi occhi, che non induceva a pensieri sconvenienti ma ispirava un amore misto a timore, purificando i cuori che aveva acceso.
537 Signora, il fuoco di cui m'avete bruciato spira così esile fumo che non potrete negare di esserne stata abbacinata, allegando quegli anneriti vapori. La sola potenza del vostro sguardo mi ha fatto cadere di mano le armi dell'orgoglio e mi ha indotto a impetrare che voi domandiate la mia vita.
538 Aveva trovato la lettera così splendidamente ispirata ai dettami della macchina aristotelica di padre Emanuele, così adatta a rivelare alla Signora la natura dell'unica persona capace di tanta tenerezza, che non ritenne indispensabile firmarla.
539 Ma ora che poteva liberamente incrociare i suoi sguardi, sapeva d'intercettarli mentre si dedicavano ad altri; si beava alla musica di parole che non gli erano destinate. Non poteva vivere che nella sua luce, ma era condannato a restare nel cono opaco di un altro corpo che ne assorbiva i raggi.
540 Da quel momento la Signora fu per lui Lilia, e come Lilia le dedicava amorosi versi, che poi subito distruggeva temendo che fossero impari omaggio: Oh dolcissima Lilia, a pena colsi un fior, che ti perdei! Sdegni ch'io ti riveggi.
541 Talora, dopo averla seguita come una spia, ritornava sui propri passi di gran corsa, aggirando l'isolato, e rallentava solo svoltando l'angolo su cui, come per caso, se la sarebbe trovata di fronte; allora la incrociava con un trepido saluto.
542 Ella gli sorrideva discreta, sorpresa da quella sorte, e gli elargiva un cenno fuggitivo, come esigevan le convenienze. Egli rimaneva in mezzo alla strada come una statua di sale, schizzato d'acqua dalle carrozze di passaggio, prostrato da quella battaglia d'amore.
543 Nel corso di molti mesi Roberto era riuscito a produrre ben cinque di quelle vittorie: si struggeva su ciascuna come se fosse la prima e l'ultima, e si convinceva che, frequenti com'erano state, non potevano essere effetto del caso, e che forse non lui, ma lei aveva istruito l'azzardo.
544 Si turbava per l'ardire a cui l'ardore lo spingeva, traduceva impudenza e rimorso in versi irrequieti, poi si diceva che un onest'uomo può essere innamorato come un pazzo, ma non come uno sciocco. Era solo col dare prova di spirito nella Chambre Bleue che si sarebbe giocato il suo destino d'amante.
545 Fu la consuetudine con i dotti del gabinetto Dupuy a suggerirgli come i principi della nuova scienza, ancora sconosciuti in società, potessero farsi similitudini di moti del cuore. E fu l'incontro col Signor d'Igby a ispirargli il discorso che lo avrebbe condotto alla perdizione.
546 Quanto all'ambiente dei Dupuy, gli inglesi non vi erano popolari: li si identificava con personaggi come Robertus a Fluctibus, Medicinae Doctor, Eques Auratus e Armigero oxoniense, contro cui si erano scritti vari libelli, deprecandone la eccessiva fiducia nelle operazioni occulte della natura.
547 Quando l'altro si spinge più lontano, piega, e lo segue intento, e torna dritto quando l'altro torna alla propria dimora. Così sarai tu a me, a me che debbo come quell'altro andare obliquamente: la tua fermezza controlla il mio cerchio e mi riporta là dove son nato.
548 Roberto aveva ascoltato fissando Lilia, che gli dava le spalle, e aveva deciso che di Lei sarebbe stato per l'eternità l'altro piede del compasso, e che occorreva imparare l'inglese per leggere altre cose di quel poeta, che così bene interpretava i suoi tremori.
549 Aveva avuto una infanzia terribile. Suo padre era stato implicato nella Congiura delle Polveri, e giustiziato. Coincidenza non comune, o forse conseguenza giustificata da insondabili moti dell'anima, d'Igby avrebbe dedicato la sua vita alla riflessione su un'altra polvere.
550 D'Igby gli chiese allora qualche pezzo di stoffa dove ci fosse del sangue della ferita, e il moschettiere gli diede una pezza che l'aveva protetto sino al giorno prima. D'Igby si era fatto portare un catino d'acqua e vi aveva versato della polvere di vetriolo, sciogliendola rapidamente.
551 Poi aveva messo la pezza nella bacinella. Improvvisamente il moschettiere, che nel frattempo si era distratto, aveva trasalito afferrandosi il braccio ferito; e aveva detto che di colpo gli era cessato il bruciore, e avvertiva anzi una sensazione di frescura sulla piaga.
552 Siccome Roberto attribuiva l'improvviso miglioramento a qualche altra causa, d'Igby con un sorriso d'intesa aveva preso la pezza e l'aveva asciugata al caminetto, e subito il moschettiere aveva ripreso a lamentarsi, cosicché fu necessario bagnare di nuovo il panno nella soluzione.
553 Per molti mesi — tanto dovrebbe esser durata la sua ostinata ricerca, mentre non procedeva di un sol passo sulla strada della conquista — Roberto aveva praticato una sorta di principio della doppia, anzi della molteplice verità, idea che a Parigi molti tenevano per temeraria e prudente al tempo stesso.
554 Nelle grandi imprese si deve cercare non tanto di creare le occasioni, quanto di approfittare di quelle che si presentano. Una sera da Arthénice, dopo una animata dissertazione sull'Astrée, l'Ospite aveva incitato gli astanti a considerare che cosa l'amore e l'amicizia avessero in comune.
555 E fu per questo che Lilia, al termine dell'orazione, sorrise ancora a Roberto. Era un sorriso di complimento, a dir molto d'ammirazione, ma nulla è più naturale che credere d'essere amati. Roberto intese il sorriso come un'accettazione di tutte le lettere che aveva inviato.
556 Troppo abituato ai tormenti dell'assenza, abbandonò la seduta, pago di quella vittoria. Fece male, e ne vedremo in seguito la ragione. Da allora osò certo rivolgere la parola a Lilia, ma sempre ne ebbe in risposta comportamenti opposti.
557 Era uscito folle di turbamento, invitato a tal convegno in un luogo che non poteva conoscere, sollecitato a ripetere ciò che non aveva mai ardito. Eppure essa non poteva averlo scambiato per un altro, perché l'aveva chiamato col suo nome.
558 Si possono interpretare in senso assai meno misterioso le parole di Lilia: semplicemente gli stava ricordando quella sua lontana allocuzione sulla Polvere di Simpatia, lo stava incitando a dir altro, in quello stesso salone di Arthénice dove aveva già parlato.
559 È naturale che — avendo preso la sua fantasia il sentiero più spinoso — egli subito avesse pensato allo scambio di persona, a qualcuno che si era fatto passare per lui, e in veste sua avesse avuto da Lilia quello che lui avrebbe barattato con la vita.
560 E mentre si ambasciava, aveva udito bussare alla porta. Speranza, sogno di uomini desti! Si era precipitato ad aprire convinto di veder lei sulla soglia: era invece un ufficiale delle guardie del Cardinale, con due uomini al seguito.
561 Lasciatigli quei due giorni per assaporare il peggio, la terza sera era tornato de Bar, gli aveva dato modo di lavarsi, e gli aveva annunciato che doveva comparire di fronte al Cardinale. Roberto capi almeno di essere un prigioniero di Stato.
562 Un'altra guardia che stava tentando di fare uscire molti dei presenti, con diversi riguardi a seconda del rango, vedendo Roberto con la barba lunga, l'abito provato dalla detenzione, gli aveva chiesto rudemente cosa facesse laggiù.
563 Poi il personaggio si voltò, tra un drappare di porpore, e stette per qualche secondo ritto, quasi a riprodurre la posa del gran ritratto che aveva alle spalle, la destra appoggiata al letturino, la sinistra all'altezza del petto, leziosamente a palmo in su.
564 Se la Daphne, come l'Amarilli, era stata inviata alla ricerca del punto fijo, allora l'Intruso era pericoloso. Roberto ormai sapeva della lotta sorda tra gli Stati d'Europa per impadronirsi di quel segreto. Doveva prepararsi molto bene e giocare d'astuzia.
565 Evidentemente l'Intruso aveva agito all'inizio di notte, poi si era mosso allo scoperto quando Roberto aveva iniziato a vegliare, sia pure in cabina, durante il giorno. Doveva dunque sconvolgere i suoi piani, dargli l'impressione di dormire di giorno e vegliare di notte.
566 Avrebbe dovuto cercar d'immaginare cosa quello pensasse che egli pensava, o cosa pensasse che lui pensava ch'egli pensasse... Sino a quel momento l'Intruso era stato la sua ombra, ora Roberto avrebbe dovuto diventare l'ombra dell'Intruso, apprendere a seguire le tracce di chi camminava dietro alle sue.
567 Ma quel mutuo agguato non avrebbe potuto continuare all'infinito, l'uno infilandosi lungo una scala mentre l'altro discendeva quella opposta, l'uno nella stiva mentre l'altro era vigile sul ponte, l'altro a precipitarsi sottoponte mentre l'uno risaliva magari dall'esterno lungo le murate.
568 Ogni persona sensata avrebbe subito deciso di proseguire l'esplorazione del resto della nave, ma non dimentichiamo che Roberto non era più sensato. Aveva ceduto di nuovo all'acquavite, e si convinceva che lo faceva per prender forza.
569 A un uomo a cui l'amore aveva sempre ispirato l'attesa, quel nepente non poteva ispirar la decisione. Procedeva dunque a rilento, credendosi un fulmine. Credeva di fare un balzo, e andava a gattoni. Tanto più che ancora non ardiva a uscii allo scoperto di giorno, e si sentiva forte di notte.
570 Dietro ai barili d'acqua ne aveva trovato altri quattro d'acquavite. Era risalito in dispensa e aveva ricontrollato i bariletti di lassù. Erano tutti d'acqua, segno che quello d'acquavite che vi aveva trovato il giorno prima era stato portato dal basso in alto, al fine di tentarlo.
571 Doveva andare quindi indietro, verso poppa, ma la lampada stava spegnendosi e aveva inciampato in qualcosa, comprendendo che stava procedendo tra la zavorra, proprio là dove sull'Amarilli il dottor Byrd aveva fatto ricavare l'alloggio per il cane.
572 Era il tramonto. Era il primo tramonto che vedeva, dopo cinque giorni di notti, albe e aurore. Poche nuvole nere quasi parallele costeggiavano l'isola più lontana per addensarsi lungo la cima, e di lì svampavano come frecce, verso sud.
573 Ma perché quelle gru, si domandava, abituato a vedere ogni evento come segno e ogni segno come impresa. Cosa avrà voluto significare? Cercava di ricordare il senso simbolico delle gru, per quanto ricordava del Picinelli o del Valeriano, ma non trovava risposta.
574 Ora noi sappiamo benissimo che non v'era né fine né concetto in quel Serraglio degli Stupori, l'Intruso ormai stava dando di cervello quanto lui; ma Roberto non poteva saperlo, e cercava di leggere quello che altro non era che uno scarabocchio stizzoso.
575 Ti prendo, ti prendo maledetto, aveva gridato. E, ancora assonnato, aveva afferrato la spada e si era gettato di nuovo verso la stiva, capitombolando per le scalette e finendo in una zona ancora inesplorata, tra mazzi di fascine e acervi di tronchetti tagliati di fresco.
576 Si era certamente ferito con la sua stessa spada. Ed ecco che Roberto, invece di pensare alla ferita, torna nella legnaia, cerca affannosamente tra le travi la sua arma, che era macchiata di sangue, la riporta nel castello, e versa l'acquavite sulla lama.
577 Poi, non traendone giovamento, sconfessa tutti i principi della sua scienza e versa il liquore sul braccio Invoca alcuni santi con troppa familiarità, corre fuori dove sta iniziando un grande acquazzone, sotto il quale le gru scompaiono a volo.
578 L'Amarilli era partita dall'Olanda e aveva fatto un rapido scalo a Londra. Qui aveva caricato furtivamente qualcosa di notte, mentre i marinai facevano cordone tra il ponte e la stiva, e Roberto non era riuscito a capire di che cosa si trattasse.
579 Roberto descrive divertito la compagnia che aveva trovato a bordo. Pareva che il capitano avesse posto la massima cura nello scegliere passeggeri trasognati e bislacchi, da usare come pretesto alla partenza, senza preoccuparsi se poi li perdeva lungo il viaggio.
580 Né ci si era preoccupati del benessere di quella piccola folla che si addensava nel sottoponte: sino a che si era attraversato l'Atlantico, il cibo non era mancato, e qualche approvvigionamento era stato fatto sulle coste americane.
581 Ma, dopo una navigazione tra lunghissime nuvole fioccolose e un cielo cilestrino, oltre il Fretum Magellanicum, quasi tutti, meno gli ospiti di rango, erano restati per almeno due mesi bevendo acqua che dava il vermocane, mangiando biscotto che puzzava di piscia di topo.
582 Poi vi erano stati venti contrari, diceva il capitano, e la nave era andata contro ogni buona ragione verso nord. Roberto di venti contrari non ne aveva sentito, anzi, quando era stata decisa quella deviazione la nave correva a vele gonfie, e per deviare si era dovuto dare alla banda.
583 Probabilmente il dottor Byrd e i suoi avevano bisogno di procedere lungo lo stesso meridiano per fare i loro esperimenti Fatto sta che erano giunti alle isole Galópegos, dove si erano divertiti a rovesciare sul dorso enormi tartarughe, e a cuocerle nel loro stesso guscio.
584 Lui è morto nel naufragio, rifletteva Roberto sulla Daphne, e io ho trovato forse la sua Escondida, ma non potrò mai raccontarglielo, né raccontarlo a nessun altro. Forse per questo scriveva alla sua Signora. Per sopravvivere bisogna raccontare delle storie.
585 L'ultimo castello in aria del cavaliere fu una sera, a pochissimi giorni e non lontano dal luogo del naufragio. Stavano costeggiando un arcipelago, che il capitano aveva deciso di non avvicinare, dato che il dottor Byrd sembrava ansioso di proseguire di nuovo verso l'Equatore.
586 I giorni scorrevano incommutabili. Come aveva previsto Mazarino, Roberto non poteva aver rapporti che con i gentiluomini. I marinai erano galeotti che era uno spavento incontrarne uno sul ponte alla notte. I viaggiatori erano affamati, malati e oranti.
587 Byrd era un britanno magro e secco con una gran testa di capelli rossi che poteva servire per un fanale di nave. Roberto, che tentava di lavarsi appena poteva, approfittando della pioggia per sciacquare gli abiti, non l'aveva mai visto in tanti mesi di navigazione cambiare camicia.
588 Byrd era un robusto bevitore di birra, e Roberto aveva imparato a tenergli testa, fingendo di ingollare e lasciando più o meno il liquido nel bicchiere allo stesso livello. Ma pareva che Byrd fosse stato istruito soltanto a riempire bicchieri vuoti.
589 Byrd parlava un discreto francese, come ogni inglese che a quell'epoca volesse viaggiare fuori della sua isola, ed era stato conquistato dai racconti di Roberto sulla coltura delle viti in Monferrato. Roberto aveva educatamente ascoltato come si facesse la birra a Londra.
590 Poi avevano discusso del mare. Roberto navigava per la prima volta e Byrd aveva l'aria di non volerne dir troppo. Il cavaliere poneva solo domande che riguardassero il punto in cui potesse trovarsi Escondida, ma poiché non forniva alcuna traccia, non otteneva risposte.
591 Apparentemente il dottor Byrd faceva quel viaggio per studiare i fiori, e Roberto lo aveva saggiato su quell'argomento. Byrd non era certamente ignaro di cose erbarie, e questo gli diede modo di intrattenersi in lunghe spiegazioni, che Roberto mostrava di ascoltare con interesse.
592 Infine Roberto aveva scoperto che a Byrd piaceva parlare di donne. Aveva inventato furibondi amori con furibonde cortigiane, e al dottore brillavano gli occhi, e si riprometteva di visitare un giorno Parigi. Poi si era ricomposto, e aveva osservato che i papisti sono tutti corrotti.
593 Appena entrati nel Pacifico, invece, i costumi di Byrd erano cambiati. Dopo la sosta a Más Afuera Roberto lo aveva visto allontanarsi ogni mattina dalle sette alle otto, mentre prima erano usi ritrovarsi a quell'ora per una colazione.
594 Sarebbe bastato seguire Byrd quando si allontanava. Ma non era facile. Sino a che scompariva di mattina era impossibile seguirlo inosservati. Quando Byrd aveva iniziato a assentarsi nelle ore oscure, Roberto sentiva benissimo quando si allontanava, ma non poteva andargli subito dietro.
595 Quando incontrava una di queste spie, Roberto accennava alla sua solita insonnia e saliva sul ponte, riuscendo a non destar sospetti. Da tempo si era fatto la fama di un balzano che sognava di notte a occhi aperti e passava il giorno a occhi chiusi.
596 Aveva peraltro incominciato, sin dall'inizio, a cercar d'indurre Byrd a qualche confidenza. E aveva escogitato un metodo che Mazarino non era stato capace di suggerirgli. Per soddisfare le sue curiosità, poneva di giorno domande al cavaliere, il quale non sapeva rispondergli.
597 Roberto si ricordava di aver ascoltato da Mazarino e Colbert una storia di parallassi, e di quel signor Morin che credeva di aver trovato un metodo per calcolarle. Per saggiare il sapere di Byrd aveva chiesto se gli astronomi non potevano calcolare le parallassi.
598 Per molti giorni Roberto non ritenne opportuno riportare il discorso sulle longitudini. Cambiò argomento, e per poterlo fare prese una decisione coraggiosa. Con il coltello si ferì il palmo di una mano. Poi lo fasciò coi brandelli di una camicia che si era ormai consunta all'acqua e ai venti.
599 Il dottor Byrd esaminò la ferita con lo sguardo dell'uomo dell'arte, e Roberto pregava Iddio che portasse una bacinella sul tavolo e vi sciogliesse del vetriolo. Invece Byrd si limitò a dire che non gli pareva cosa grave e gli consigliò di lavarla bene al mattino.
600 Apparentemente quella conversazione non aveva detto a Roberto cose che già non sapesse, compreso che il dottor Byrd sulla Polvere di Simpatia la sapeva lunga. Eppure il discorso del dottore si era aggirato troppo sugli effetti peggiori della polvere, e non poteva essere un caso.
601 Finché una mattina, approfittando del fatto che un marinaio era caduto da un pennone fratturandosi il cranio, che sulla tolda c'era tumulto, e che il dottore era stato chiamato a curare lo sfortunato, Roberto era sgusciato nella stiva.
602 Quasi a tentoni era riuscito a trovar la strada giusta. Forse era stata fortuna, forse la bestia si lamentava più del solito quella mattina: Roberto, più o meno là dove sulla Daphne avrebbe poi scoperto i bariletti d'acquavite, si trovò dinnanzi un atroce spettacolo.
603 Era forse di razza, ma la sofferenza e gli stenti lo avevano ridotto a pelle e ossa. Eppure i suoi carnefici mostravano l'intenzione di tenerlo in vita: gli avevano provvisto cibo e acqua in abbondanza, e anche cibo non canino, certamente sottratto ai passeggeri.
604 Giaceva su un fianco, con la testa abbandonata e la lingua fuori. Sul suo fianco si apriva una vasta e orrenda ferita. Fresca e cancherosa al tempo stesso, essa mostrava due grandi labbra rosacee, ed esibiva al centro, e lungo tutta la sua fenditura, un'anima purulenta che pareva secernere ricotta.
605 Impotente, Roberto aveva accarezzato il meschino, che ora cagnolava sommesso. Si era chiesto come potesse giovargli, ma toccandolo più forte lo aveva fatto ancora soffrire. Peraltro, la sua pietà si stava facendo vincere da un senso di vittoria.
606 Non rimaneva che attendere la prova dei fatti. In quel periodo Byrd si allontanava sempre intorno alle undici: ci si stava dunque avvicinando all'antimeridiano. Egli avrebbe dovuto attenderlo nascosto presso al cane, intorno a quell'ora.
607 Gli altri si erano ormai allontanati. Roberto era uscito dal suo nascondiglio e si era soffermato, alla luce della sua corda catramata, davanti al cane dormiente. Gli aveva sfiorato il capo. Vedeva in quel povero animale tutta la sofferenza del mondo, furioso racconto di un idiota.
608 L'Amarilli pareva fuori di sé, e afferrandosi a ogni dove era rientrato nel suo alloggio, scordando i mali del mondo per soffrire del male del mare. Poi il naufragio, di cui si è detto. Aveva compiuto con successo la sua missione: unico sopravvissuto egli portava con sé il segreto del dottor Byrd.
609 Al centro vi era una cassa aperta, con della paglia sul fondo, vuota. Cosa potesse aver contenuto, Roberto lo capì tornando alla sua camera dove, come aprì la porta, lo attendeva ritto un animale che, in quell'incontro, gli parve più terribile che se fosse stato l'Intruso in carne e ossa.
610 Un topo, un rattaccio di chiavica, macché, un gattomammone, alto più della metà di un uomo, con la coda lunga che si stendeva sul pavimento, gli occhi fissi, fermo su due zampe, le altre due come piccole braccia tese verso di lui.
611 Di pelo corto, aveva sul ventre una borsa, un'apertura, un sacco naturale da cui occhieggiava un piccolo mostro della stessa specie. Sappiamo quanto Roberto avesse fatto almanacchi sui topi le prime due sere, e se li attendeva grandi e ferini quanto ne possono albergare sulle navi.
612 Passato il primo momento di terrore, era divenuto chiaro, dall'immobilità dell'invasore, che si trattava di un animale impagliato, e impagliato male, o male conservato nella stiva: la pelle emanava un fetore di organi decomposti, e dal dorso già uscivano ciuffi di biada.
613 L'Intruso, poco prima che lui entrasse nella camera delle maraviglie, ne aveva sottratto il pezzo di maggior effetto, e mentre lui ammirava quel museo, glielo aveva posto in casa, forse sperando che la sua vittima, perduta la ragione, si precipitasse oltre le murate e scomparisse in mare.
614 Mi vuole morto, mi vuole pazzo, mormorava, ma gli farò mangiare il suo topo a bocconi, metterò lui imbalsamato su quegli scaffali, dove ti nascondi maledetto, dove sei, forse mi stai guardando per vedere se insanisco, ma io farò insanire te, scellerato.
615 Aveva piuttosto controllato se sotto alla soda si aprisse ancora un altro spazio. C'era, salvo che era bassissimo, tal che vi si poteva procedere solo a carponi. Lo aveva esplorato tenendo la lampada verso il basso, per guardarsi dagli scorpioni, e per timore d'incendiarne il soffitto.
616 Dopo breve strisciare era giunto al fine, battendo il capo contro il duro larice, estrema Thule della Daphne, al di là della quale si udiva diguazzare l'acqua contro lo scafo. Dunque oltre quel cuniculo cieco non poteva esserci altro.
617 Se la cosa può apparir strana, che in una settimana e più di inattivo soggiorno Roberto non fosse riuscito a veder tutto, basti pensare a quel che accade a un fanciullo che penetri nei solai o nelle cantine di una grande e avita dimora dalla pianta diseguale.
618 Era di primo mattino, e Roberto di nuovo sognava. Sognava dell'Olanda. Era stato mentre gli uomini del Cardinale lo conducevano ad Amsterdam per imbarcarlo sull'Amarilli. Nel viaggio avevano fatto sosta in una città, ed era entrato nella cattedrale.
619 Ancora una volta si era riarmato, aveva ancora attinto forza dal bariletto, e aveva seguito il suono. Sembrava venire dal ripostiglio degli orologi. Ma, da che aveva disperso quelle macchine sul ponte, il posto era rimasto vuoto.
620 L'oggetto che occupava il nuovo spazio era un organo, che aveva al sommo una ventina di canne, dalle cui aperture uscivano le note della melodia. L'organo era fissato alla parete e si componeva di una struttura in legno sostenuta da ma armatura di colonnine di metallo.
621 Sotto al cilindro era infissa una barra orizzontale che sosteneva delle levette le quali, al ruotar del cilindro, successivamente ne toccavano i denti, e per un gioco d'aste seminascoste azionavano i tasti — e questi le canne.
622 A Roberto ubriaco tutto questo parve naturale, tanto che si senti tradito quando il cilindro prese a rallentare, e le canne zufolarono la loro melodia come se essa gli si spegnesse in gola, mentre i ciclopi e l'amorino cessavano i loro battiti.
623 Evidentemente — benché ai suoi tempi molto si parlasse del moto perpetuo — la pompa nascosta che regolava l'aspirazione e l'afflusso dell'acqua poteva agire per un certo tempo dopo un primo impulso, ma poi giungeva al termine del suo sforzo.
624 Roberto non sapeva se maravigliarsi maggiormente di quel sapiente tecnasma — ché di altri simili aveva udito parlare, capaci di azionare danze di morticini o di putti alati, o del fatto che l'Intruso — che altri non avrebbe potuto essere — lo avesse messo in azione quella mattina e a quell'ora.
625 Un filosofo gli aveva detto che Dio conosceva il mondo meglio di noi perché lo aveva fatto. E che per adeguare, sia pur di poco, la conoscenza divina bisognava concepire il mondo come un grande edificio, e cercare di provare a costruirlo.
626 Si tornava quindi indietro e si attraversava tutto il sottoponte con la voliera e il verziere. Se l'Intruso non si trasformava a piacere in forma di animale o di vegetale, lì non poteva nascondersi. Sotto la barra del timone c'erano l'organo e gli orologi.
627 Discendendo ancora aveva trovato la parte più ampia della stiva, con le altre provviste, la zavorra, la legna; aveva già bussato contro la fiancata per controllare che non vi fosse qualche falso fondo che desse un suono vuoto.
628 La sentina non consentiva, se quella nave era normale, altri nascondigli. A meno che l'Intruso stesse incollato alla chiglia, sott'acqua, come una sanguisuga, e slumacasse a bordo nottetempo — ma di tutte le spiegazioni, ed era disposto a tentarne molte — questa gli pareva la meno scientifica.
629 Dunque, dividendo la nave in comparti, l'aveva riempita tutta e non le lasciava spazio per alcun nuovo ripostiglio. Conclusione: l'Intruso non aveva un luogo fisso. Si muoveva secondo che lui si muovesse, era come l'altra faccia della luna, che noi sappiamo che deve esserci ma non la vediamo mai.
630 Chi poteva scorgere l'altra faccia della luna? Un abitante delle stelle fisse: avrebbe potuto attendere, senza muoversi, e ne avrebbe sorpreso il volto celato. Sino a che lui si fosse mosso con l'Intruso o lasciasse all'Intruso di scegliere le mosse rispetto a lui, non lo avrebbe mai visto.
631 Doveva diventare stella fissa e costringere l'Intruso a muoversi. E poiché l'Intruso stava evidentemente sul ponte quando lui era sottocoperta, e viceversa, doveva fargli credere di essere sottocoperta per sorprenderlo sul ponte.
632 Allora era tornato alla camera, dove frattanto la luce si era spenta. E aveva trovato le sue carte in disordine. L'Intruso aveva passato la notte laggiù, forse a leggere le sue lettere alla Signora, mentre lui stava a patire il freddo della notte e la rugiada al mattino.
633 Roberto vi rifletteva solo adesso, ma su quella nave mancavano ancora troppe cose. Per esempio, non aveva trovato altre armi. E sia pure, quelle se le erano portate via i marinai — se avevano abbandonato la nave di loro volontà.
634 Roberto ora era sicuro che il Nemico non poteva che essere lì. Corse di sotto, si infilò nel cunicolo, ma questa volta illuminando l'alto. E c'era un portello. Resistette al primo impulso di aprirlo. Se l'Intruso era lì sopra, lo avrebbe atteso mentre metteva fuori il capo, e avrebbe avuto ragione di lui.
635 Era un vecchio, dalle pupille dilatate, dal volto disseccato incorniciato da una barbetta pepe e sale, i pochi capelli canuti dritti sul capo, la bocca quasi sdentata dalle gengive color mirtillo, sepolto dentro a un panno che forse era stato nero, ormai lardellato di macchie slavate.
636 Dunque, Roberto si trovava di fronte a padre Caspar Wanderdrossel, e Societate Iesu, olim in Herbipolitano Franconiae Gymnasio, postea in Collegio Romano Mathematum Professor, e non solo, ma anche astronomo, e studioso di tant'altre discipline, presso la Curia Generalizia della Compagnia.
637 La Daphne, comandata da un capitano olandese che aveva già tentato quelle rotte per la Veerenigde OostIndische Compagnie, aveva lasciato molti mesi prima le coste mediterranee circumnavigando l'Africa, nell'intento di pervenire alle Isole di Salomone.
638 Esattamente come voleva fare il dottor Byrd con l'Amarilli, salvo che l'Amarilli cercava le Isole di Salomone buscando il levante per il ponente, mentre la Daphne aveva fatto il contrario, ma poco importa, agli Antipodi si arriva da entrambe le parti.
639 Erano, raccontava padre Caspar, animali amichevoli, che circondavano gli sbarcati tendendo le manine per chieder cibo, addirittura tirandoli per le vesti, ma poi alla resa dei conti ladri matricolati, che avevano rubato del biscotto dalle tasche di un marinaio.
640 Mi sia lecito intervenire a tutto credito di padre Caspar: un'isola del genere esiste davvero, e non si può confonderla con nessun'altra. Quegli pseudocanguri si chiamano Quokkas, e vivono solo lì, sulla Rottnest Island, che gli olandesi avevano scoperto da poco, chiamandola rottenest, nido di ratti.
641 Ma fosse solo quello. Gli uomini della Daphne avrebbero dovuto vedere una costa a poca distanza dall'isola, ma avranno pensato che si trattava di qualche altra isoletta con qualche altro roditore. Ben altro cercavano, e chissà che cosa stavano dicendo gli strumenti di bordo a padre Caspar.
642 Prendiamo dunque per buono il racconto di padre Caspar. Seguendo sovente le ubbie degli alisei, la Daphne era finita in un'altra tempesta e si era ridotta in malo modo, tanto che avevano dovuto arrestarsi su un'isola Dio sa dove, senz'alberi, tutta sabbia disposta ad anello intorno a un laghetto centrale.
643 Il panico si era sparso a bordo. Inutile che padre Caspar raccontasse dell'insetto: l'appestato mente sempre per non essere segregato, lo si sapeva. Inutile che assicurasse che lui la peste la conosceva bene, e quella peste non era per molte ragioni.
644 Padre Caspar tentava di spiegare che, durante la gran pestilenza che aveva colpito Milano e l'Italia del Nord una dozzina di anni prima, era stato inviato insieme ad altri suoi confratelli a prestare aiuti nei lazzaretti, a studiare da vicino il fenomeno.
645 In secondo luogo la peste è certamente prodotta da arie fetide che salgono dalle paludi, dal disfarsi dei molti cadaveri durante le guerre, o persino da invasioni di locuste che annegano a frotte nel mare e poi rifluiscono sulle rive.
646 Il capitano diceva che le tracce delle esalazioni rimangono attaccate alle vesti e a molti altri oggetti, e che forse a bordo c'era qualcosa che aveva conservato a lungo e poi trasmesso il contagio. E si era ricordato la storia dei libri.
647 Erano balzati in piedi, gli indigeni avevano mostrato subito intenzioni bellicose, ma nessuno capiva più nulla, e tanto meno dove avessero lasciato le armi. Solo il capitano si era fatto avanti e aveva steso uno degli assalitori con un colpo di pistola.
648 Udito lo sparo, e visto il compagno che cadeva morto senza che alcun corpo lo avesse toccato, gli indigeni avevano fatto cenni di sottomissione, e uno di loro si era avvicinato al capitano porgendogli una collana che aveva al collo.
649 Padre Wanderdrossel pensava che gli indigeni fossero stati subito impressionati, prima ancora che dal colpo, dal portamento del capitano, che era un gigante batavo dalla barba bionda e gli occhi azzurri, qualità che quei nativi attribuivano probabilmente agli dèi.
650 Quindi gli indigeni, sazi, avevano incominciato ad additarsi la nave. Probabilmente non l'associavano alla presenza dei marinai: maestosa com'era d'alberi e di vele, incomparabilmente diversa dalle loro canoe, essi non avevano pensato che fosse opera d'uomo.
651 Da quel momento, per la paura, si era di nuovo ammalato, aveva abbandonato il suo alloggio e si era rifugiato in quel bugigattolo, portandosi dietro i suoi medicamenti, e una pistola, senza neppure capire che fosse scarica. E di lì era uscito solo per cercare cibo e acqua.
652 Il giorno seguente padre Caspar, che non aveva mai perduto il computo del tempo, avvertì che era domenica. Celebrò la messa nella sua cabina, consacrando una particola delle poche ostie che gli erano rimaste. Quindi riprese la sua lezione, prima in cabina tra mappamondo e carte, poi sul ponte.
653 E alle rimostranze di Roberto, che non poteva soffrire la luce piena, aveva tirato fuori da uno dei suoi armadi degli occhiali, ma con le lenti affumicate, che lui aveva usato con successo per esplorare la bocca di un vulcano.
654 Per capire quanto segue debbo fare una chiosa, e se non la faccio anch'io non mi ci raccapezzo. La convinzione di padre Caspar era che la Daphne si trovasse tra il sedicesimo e il diciassettesimo grado di latitudine sud e a centottanta di longitudine.
655 Però se padre Caspar avesse deciso di disattendere il decreto di Luigi XIII e avesse posto il suo primo meridiano, poniamo, a Bologna, allora la Daphne sarebbe stata ancorata più o meno fra Tahiti e le Tuamotu. Ma li gli indigeni non hanno la pelle scura come quelli che lui diceva di aver visto.
656 Per quale ragione prender per buona la tradizione dell'Isola del Ferro? Bisogna partire dal principio che padre Caspar parla del Primo Meridiano come di una linea fissa stabilita per decreto divino sin dai giorni della creazione.
657 Da dove Dio avrebbe ritenuto naturale farla passare? Da quel luogo d'incerta locazione, certamente orientale, che era il giardino dell'Eden? Dall'Ultima Thule? Da Gerusalemme? Nessuno sino ad allora aveva osato prendere una decisione teologica, e giustamente: Dio non ragiona come gli uomini.
658 Quindi la soluzione non doveva essere in termini di Storia, bensì di Astronomia Sacra. Occorreva far coincidere il dettato della Bibbia con le conoscenze che noi abbiamo delle leggi celesti. Ora, secondo il Genesi, Dio anzitutto crea il cielo e la terra.
659 Il che significa che il primo risultato della creazione era Materia Prima, informe e senza dimensioni, qualità, proprietà, tendenze, priva di movimento e di riposo, puro caos primordiale, hyle che non era ancora né luce né tenebra.
660 Roberto aveva obiettato che, se su quel meridiano era notte, un giorno abortito ci sarebbe stato dall'altra parte là dove era improvvisamente apparso il sole, senza che prima non fosse né notte né altro, ma solo caos tenebroso e senza tempo.
661 I conti in parte tornerebbero. La sagoma di Taveuni mostra una catena vulcanica, come l'isola grande che Roberto vedeva a ovest. Se non fosse che padre Caspar aveva detto a Roberto che il meridiano fatale passava proprio davanti alla baia dell'Isola.
662 La verità è che coi dati che ci comunica Roberto non è possibile appurare dove fosse finita la Daphne. E poi tutte quelle isolette sono come i giapponesi per gli europei e viceversa: si assomigliano tutte. Ho solo voluto tentare.
663 Pertanto: la Daphne si trovava di fronte al centottantesimo meridiano, proprio alle Isole di Salomone, e l'Isola nostra era — tra le Isole di Salomone — la più salomonica, come salomonico è il mio verdetto, onde tranciare una volta per tutte.
664 Dunque, le ragioni per cui padre Caspar era partito poco avevano a che fare coi propositi di rapina dei vari navigatori di altri paesi. Tutto nasceva dal fatto che padre Caspar stava scrivendo un'opera monumentale, e destinata a rimaner più perenne del bronzo, sul Diluvio Universale.
665 Padre Caspar aveva abbandonato la sua spiegazione geoastronomica e si era profuso nella descrizione del diluvio. Parlava ora il suo latino erudito, muovendo le braccia come per evocare i vari fenomeni celesti e inferi, a grandi passi sulla tolda.
666 Grondante di sudore, il religioso aveva terminato la sua evocazione. Quasi fosse spaventato dalle conseguenze d'ogni diluvio, il cielo aveva richiamato indietro il temporale, come uno sternuto che pare lì lì per esplodere e poi viene trattenuto con un grugnito.
667 Se questa era la disposizione dell'animo suo, possiamo allora capire perché non fosse così motivato a negare anche le più o meno fededegne tra le rivelazioni di padre Caspar. Di tutti i racconti che aveva udito, quello fattogli dal gesuita era certamente il più fuori del comune.
668 Sfido chiunque a trovarsi abbandonato su di una nave deserta, tra cielo e mare in uno spazio sperduto, e non esser disposto a sognare che, in quella gran disgrazia, non gli sia almeno toccato in sorte di capitare nel centro del tempo.
669 Se poi Roberto cominciava a dubitare del suo ospite, subito quello, conducendolo a riesplorar la nave e mostrandogli strumenti che erano sfuggiti alla sua attenzione, gli permetteva di imparar tante e tali cose da guadagnarsi la sua fiducia.
670 Di un altro, dall'occhio giallo, una bocca tumida e i denti come chiodi, padre Caspar aveva subito detto che era creatura di Belzebù. Che lo si lasciasse soffocare sul ponte sino a che morte non ne seguisse, e poi via da dove era venuto.
671 Iniziando Roberto ai misteri di quel mar salomonico, il gesuita era anche stato più preciso nel dar notizie sull'Isola, di cui la Daphne, arrivando, aveva fatto l'intero giro. Verso est aveva alcune piccole spiagge, ma troppo esposte ai venti.
672 Sia Caspar che i marinai avevano esplorato l'Isola, se non tutta, in gran parte: abbastanza da poter decidere che il cocuzzolo, che avevano scelto per impiantarvi la Specola, era il più adatto per dominare con l'occhio tutta quella terra, vasta quanto la città di Roma.
673 Non era parso né a padre Caspar né al capitano o ai marinai, che in quelle acque ci fossero Pesci Cani, che li si potrebbe notare anche da lontano, per via di quella pinna, tagliente come una scure. E dire che in quei mari se ne trovano per ogni dove.
674 Sui coralli padre Caspar restava senza parole e si limitava ad alzare gli occhi al cielo con una espressione di beatitudine. Quelli di cui parlava Roberto erano i coralli morti, come morta era la virtù di quelle cortigiane a cui i libertini applicavano quell'abusata comparazione.
675 Questo uccello color arancio, diceva padre Caspar, certamente non poteva che vivere sull'Isola di Salomone, perché era nel Cantico di quel gran Re che si parlava di una colomba che si leva come l'aurora, fulgida come il sole, terribilis ut castrorum acies ordinata.
676 Insieme a questo animale Caspar ne aveva visto un altro quasi uguale, tranne che le penne non erano aranciate ma verdazzurre, e dal modo come i due andavano di regola appaiati sullo stesso ramo, dovevano essere maschio e femmina.
677 Roberto domandò quante colombe potessero esserci sull'Isola. Per quel che ne sapeva padre Caspar, che ogni volta aveva visto una sola palla arancina schizzare verso le nubi, o sempre una sola coppia tra le alte fronde, sull'Isola potevano esserci anche due sole colombe, e una sola color arancio.
678 Certo, un orologio dopo migliaia di miglia non dà più la certezza di segnar bene il tempo del luogo di partenza. Ma molti e vari orologi, alcuni di speciale e accurata costruzione, quanti Roberto ne aveva scoperti sulla Daphne.
679 Per fortuna i suoi confratelli erano davvero un poco dappertutto, da Pernambuco a Goa, da Mindanao al Porto Sancti Thomae e, se i venti gli impedivano di attraccare in un porto, ce n'era subito un altro. Per esempio a Macao, ah, Macao, al solo pensiero di quell'avventura padre Caspar si scombuiava.
680 Era un possedimento portoghese, i Chinesi chiamavano gli europei uomini dal lungo naso proprio perché i primi a sbarcare sulle loro coste erano stati i portoghesi, che invero hanno un naso lunghissimo, e anche i gesuiti che venivano con loro.
681 Questo esperimento, padre Caspar lo avrebbe fatto molto prima, se non fosse successo tutto quel che era successo. Ma era venuto il momento, e sarebbe stato proprio quella notte stessa: il cielo e le effemeridi dicevano che era la notte giusta.
682 Anzi, era molto utile e per la scienza e per la fede approfittare al più presto dell'idea del Galilei; costui aveva già tentato di venderla agli olandesi, e per fortuna che quelli, come gli spagnoli qualche decennio prima, ne avevano diffidato.
683 Ora che la nostra luna entri talora in eclissi, quando passa nell'ombra della terra, era cosa ben nota, così come era noto a tutti gli astronomi quando le eclissi lunari si sarebbero verificate, e facevano testo le effemeridi.
684 Purché, giova ripeterlo, si avessero quelle buone effemeridi che il Galilei ormai vecchio e malato non era riuscito a completare, ma che i confratelli di padre Caspar, già così bravi a calcolar le eclissi di Luna, avevano ora stilato a perfezione.
685 Quali erano gli inconvenienti maggiori, su cui si erano esacerbati gli avversari di Galileo? Che si trattava di osservazioni che non si potevano fare a occhio nudo e ci voleva un buon cannocchiale o telescopio che dir ormai si volesse.
686 E padre Caspar ne aveva di ottima fattura, quale neppure il Galilei se lo era mai sognato. Che la misurazione e il calcolo non erano alla portata dei marinai? Ma se tutti gli altri metodi per le longitudini, se si eccettua forse la navicella, richiedevano addirittura un astronomo.
687 Ma, dicevano i pedanti, osservazioni così esatte che richiedevano molta precisione, si potevano forse fare da terra, ma non su di una nave in movimento, dove nessuno riesce a tener fermo un cannocchiale su un corpo celeste che non si vede a occhio nudo.
688 Ecco quindi padre Caspar impegnare Roberto nella preparazione di un esperimento che si doveva fare in una sera come quella che si stava annunciando, astronomicamente opportuna, con cielo chiaro, ma con il mare in mediocre agitazione.
689 Se l'esperimento si faceva in una sera di bonaccia, spiegava padre Caspar, era come farlo da terra, e li si sapeva già che sarebbe riuscito. L'esperimento doveva invece consentire all'osservatore una parvenza di bonaccia su di uno scafo mosso da poppa a prora, e dall'una all'altra banda.
690 Ma padre Caspar era così sicuro delle sue osservazioni precedenti che desiderava soltanto confermarle, e poi — probabilmente — dopo tutto quel trambusto sulla nave non c'era più un solo orologio che ancora segnasse l'ora dell'altra faccia del globo, e occorreva superare quell'intoppo.
691 Posta la bacinella sul ponte, e resala stabile con qualche cuneo, padre Caspar si assise sul seggio, e spiegò a Roberto come montargli sulle spalle, allacciandogliela alla vita, un'armatura di cinghie e bandoliere di tela e di cuoio, a cui doveva venir assicurata anche una cuffia in forma di celata.
692 In tutte queste infelici operazioni non era che l'olio rimanesse calmo come l'olio, e dopo un poco entrambi gli sperimentatori si ritrovarono gelatinosi e, quel che è peggio, oleabondi — se il contesto permette questo conio al cronista, senza che debba esserne imputata la fonte.
693 Così si fece, con gran lodi del maestro all'acume dell'allievo, mentre si appressava la mezzanotte. Non era che l'insieme desse l'impressione di gran stabilità, ma se padre Caspar stava attento a non muoversi sconsideratamente, si poteva bene sperare.
694 Roberto, che aveva lasciato il suo posto per soccorrere il maestro, aveva ripreso in mano la tabella su cui doveva segnare i tempi, ma si era seduto lasciando gli orologi alle spalle. Si voltò di colpo, e fece cadere il pendolo.
695 La bacchetta si sfilò dal suo capestro. Roberto l'afferrò e tentò di reinserirla, ma non ci riusciva. Padre Caspar stava già gridando di segnare l'ora, Roberto si voltò verso l'orologio e nel gesto colpi con la penna il calamaio.
696 Roberto non sapeva se soccorrere prima l'uomo o l'istrumento. L'uomo, annaspando in quella rancidezza, gli aveva gridato sublime di badare al cannocchiale, Roberto si era precipitato a inseguire quell'Iperbole fuggiasca, e l'aveva ritrovata ammaccata e con le due lenti infrante.
697 Quando finalmente Roberto aveva tratto dall'olio padre Caspar, che sembrava una porcina pronta per la padella, quello aveva detto semplicemente con eroica cocciutaggine che non tutto era perduto. Di telescopio altrettanto potente ce n'era un altro, imperniato sulla Specola Melitense.
698 Sentendosi più gentiluomo di quanto non fosse a Parigi Roberto, mentre con una mano si teneva stretto alla scaletta, con l'altra strofinava camicia e calzoni contro il suo corpo sudicio, grattando intanto il tallone di un piede con le dita dell'altro.
699 Padre Caspar lo seguiva incuriosito, ma taceva, volendo che Roberto stringesse amicizia col mare. Tuttavia temendo che la mente di Roberto si smarrisse per eccessiva premura verso il corpo, tendeva a distrarla. Gli parlava pertanto delle maree e delle virtù attrattive della luna.
700 Aveva chiesto come mai noi, della luna, vediamo sempre una e una sola faccia, e padre Caspar aveva spiegato che essa gira come una palla trattenuta per un filo da un atleta che la fa roteare, e il quale non può vedere altro che il lato che gli sta contro.
701 Padre Caspar sorrideva e gli ricordava che era da gran tempo che i gesuiti non sconfiggevano più i loro avversari con cavilli scritturali, ma con argomenti imbattibili fondati sull'astronomia, sul senso, sulle ragioni matematiche e fisiche.
702 Per dare il massimo vigore teatrale a quest'ultima obiezione Roberto aveva voluto puntare il dito contro padre Caspar, per cui aveva teso il braccio e dato un colpo coi piedi per portarsi in buona prospettiva più lontano dalla fiancata.
703 In questo movimento anche l'altra mano aveva mollato la presa, il capo si era mosso all'indietro e Roberto era andato sott'acqua, senza poi riuscire, come si è già detto, ad avvalersi della gomena, troppo allentata, per tornare a galla.
704 Si era allora comportato come tutti coloro che poi annegano, facendo movimenti disordinati e bevendo ancor di più, sino a che padre Caspar aveva teso a dovere la corda riportandolo alla scaletta. Roberto era risalito giurando che non sarebbe mai più tornato laggiù.
705 Che tutto quel sapere fosse destinato a rimanere loro privato appannaggio, condannati com'erano a non ritrovare mai più la via del ritorno — questo non preoccupava il gesuita, non so se per fiducia nella Provvidenza o per amor di conoscenza fine a se stessa.
706 In questa fase padre Caspar gli stava spiegando che, se avesse lasciato la scaletta, e mosso le mani liberamente, come se stesse seguendo il ritmo di una compagnia di musici, imprimendo un moto svagato alle gambe, il mare lo avrebbe sostenuto.
707 Roberto per la prima volta sentiva il mare come un amico. Seguendo le istruzioni di padre Caspar, aveva anche cominciato a muovere le braccia e le gambe: alzava lievemente il capo, lo buttava indietro, si era abituato ad avere l'acqua nelle orecchie e a sopportarne la pressione.
708 Tuttavia aveva pure capito che gli era più facile stare supino, a faccia all'aria, che prono. A me pare il contrario, ma Roberto aveva imparato prima in quel modo, e per un giorno o due continuò così. E intanto dialogava sui massimi sistemi.
709 Erano tornati a parlar del moto della terra e padre Caspar lo aveva preoccupato con l'Argomento dell'Eclissi. Levando la terra dal centro del mondo e mettendo in suo luogo il sole, bisogna metter la terra o sotto la luna o sopra la luna.
710 Se la mettiamo sotto non ci sarà mai l'eclissi di sole perché, la luna essendo sopra il sole o sopra la terra, non potrà mai frapporsi tra la terra e il sole. Se la mettiamo sopra, non ci sarà mai l'eclissi di luna perché, la terra essendole sopra, non si potrà mai frapporre tra essa e il sole.
711 Si considerasse poi l'Argomento dell'Arciere. Se la terra girasse tutte le ventiquattro ore, quando si tira una saetta direttamente all'in su, questa ricadrebbe a occidente, a molte miglia distante dal tiratore. Che sarebbe poi come a dire l'Argomento della Torre.
712 Poi, siccome era d'animo cristiano, quando gli era parso che Roberto fosse stato punito abbastanza, lo aveva tirato su. E per quel giorno era finita sia la lezione di nuoto che quella d'astronomia, e i due erano andati a dormire ciascuno dalla propria banda senza rivolgersi la parola.
713 Seguiva l'Argomento delle Nuvole Bianche, che van per l'aria quando il tempo è tranquillo, e paiono sempre andar con la stessa lentezza; mentre, se girasse la terra, quelle che vanno a ponente dovrebbero procedere a immensa velocità.
714 Si concludeva con l'Argomento degli Animali Terrestri, che per istinto dovrebbero sempre muoversi verso oriente, per secondare il moto della terra che li signoreggia; e dovrebbero mostrare grande avversione a muoversi verso occidente, perché sentirebbero che questo è un moto contro natura.
715 Difficile replicare a un argomento così sottile e geometricamente perfetto — e per di più in perfetta malafede, perché padre Caspar avrebbe dovuto sapere che qualcosa di simile sarebbe accaduto anche se i pianeti giravano come voleva Ticone.
716 Ma padre Caspar, col pretesto del mar mosso, e di altri calcoli che doveva fare, per quel giorno aveva rinviato la sua lezione. Verso sera gli aveva spiegato che, per imparare la natatione, come lui diceva, ci vuole concentrazione e silenzio, e non si può lasciar andare la testa tra le nuvole.
717 Roberto rispose che non era colpa sua. Il gesuita ammise che forse non era colpa sua, ma intanto le intemperie e gli animali selvatici gli stavano rovinando la Specola, che andava invece curata ogni giorno. Per cui, ultima ratio, non restava che una soluzione: sull'Isola ci sarebbe andato lui.
718 Perché non l'aveva costruita? Perché così è fatta natura — diceva — a umiliazione della nostra pochezza: ci sono idee che sulla carta paiono perfette e poi alla prova dell'esperienza si rivelano imperfette, e nessuno sa per quale ragione.
719 Si avviò verso la soda, che era evidentemente un magazzino inesauribile: oltre all'armamentario astronomico, rimaneva ancora qualcosa d'altro. Roberto fu costretto a portare sul ponte altre barre e semicerchi di metallo e un voluminoso involto di pelle che sapeva ancora del suo cornuto donatore.
720 A questo punto la campana fu spostata verso l'argano e agganciata a un braccio che, per accorto sistema di pulegge, avrebbe permesso di sollevarla, abbassarla, spostarla fuori bordo, calarla o issarla, come avviene d'ogni balla, cassa o involto che si carichi o scarichi da una nave.
721 Caspar rispondeva che, una volta lui sul fondo, Roberto se ne sarebbe accorto perché la fune si sarebbe allentata: e a quel punto la si tagliava. Credeva forse che lui dovesse tornare per la stessa via? Una volta sull'Isola sarebbe andato a recuperar la barca, e con quella sarebbe tornato, se Dio voleva.
722 E se sott'acqua avesse incontrato un gran pesce, di quelli che divorano gli uomini? E padre Caspar a ridere: anche il più feroce dei pesci, quando incontra sul suo cammino una campana semovente, cosa che farebbe paura anche a un uomo, viene preso da tale sconcerto che si dà a rapida fuga.
723 Padre Caspar ripeté che si sarebbe trattato di una sollazzevole impresa in cui avrebbe veduto cose strabilianti che neppure Adamo o Noè avevano conosciuto, e temeva di commettere peccato di superbia — fiero com'era d'essere il primo uomo a discendere nel mondo marino.
724 Per qualche minuto Roberto assisté allo spettacolo di un chiocciolone, macché, di una vescia, un agarico migratorio, che procedeva per passi lenti e goffi, spesso fermandosi e compiendo un mezzo giro su se stesso quando il padre voleva guardare a destra o a sinistra.
725 La spiaggia sembrava però più tranquilla, la maretta era solo a mezza strada, e quello era per Roberto buon segno indicava il luogo dove il barbacane sporgeva fuori dell'acqua e marcava il limite oltre il quale padre Caspar non avrebbe più corso pericolo.
726 Poi Roberto si diceva che andando verso l'alto mare chiunque si sarebbe accorto di discendere anziché salire, e avrebbe mutato rotta. Ma se in quel punto ci fosse stata una piccola salita verso occidente, e chi saliva credesse di andare a oriente.
727 No, si diceva poi: il vecchio capisce benissimo dove deve andare, forse è già a mezza strada tra la nave e il barbacane, anzi, ci è già arrivato, ecco, forse sta per montarvi con le sue grandi suole di ferro, e tra poco lo vedo.
728 Altro pensiero: in realtà nessuno prima d'oggi è mai stato in fondo al mare. Chi mi dice che laggiù oltre poche braccia non si entri nel nero assoluto, abitato solo da creature i cui occhi emanano vaghi lucori... E chi dice che in fondo al mare si abbia ancora il senso della retta via.
729 Ma forse il vecchio è andato di traverso, è inutile guardare davanti a sé come se avesse dovuto riemergere lungo il tragetto della palla d'archibugio. Poteva aver fatto molte deviazioni, cercando il migliore accesso al barbacane.
730 Il pesce! Forse nelle acque c'era davvero un pesce cannibale, per nulla spaventato dalla campana, che aveva divorato per intero il gesuita. No, di tal pesce si sarebbe scorta l'ombra scura: se c'era doveva essere tra la nave e l'inizio delle rocce coralline, non oltre.
731 Roberto si torceva le mani, e malediceva la sua fretta. Era chiaro, lui stava credendo che fossero passate ore ed erano passate invece poche pulsazioni di polso. Si disse che non aveva ragioni per tremare, lui, e ben di più ne avrebbe avuto il coraggioso vegliardo.
732 E poi, si diceva, ho immaginato troppe ragioni di tragedia ed è proprio dei melanconici generare spettri che la realtà è incapace di emulare. Padre Caspar conosce le leggi idrostatiche, ha già scandagliato questo mare, ha studiato il Diluvio anche attraverso i fossili che popolano tutti i mari.
733 Si accorgeva di amare, ormai, quello che era stato l'Intruso, e di piangere già, al solo pensiero che potesse essergli occorso un malanno. Su vecchio, mormorava, ritorna, rinasci, risuscita, per Dio, che tireremo il collo alla gallina più grassa, non vorrai mica lasciar sola la tua Specola Melitense.
734 E improvvisamente si accorse che non vedeva più le rocce vicino a riva, segno che il mare aveva iniziato ad alzarsi; e il sole, che prima scorgeva senza dover alzare il capo, ora era proprio su di lui. Dunque dal momento della scomparsa della campana erano già trascorsi non minuti ma ore.
735 Dovette ripetersi quella verità ad alta voce, per trovarla credibile. Aveva contato per secondi quelli che erano minuti, lui si era convinto di aver in petto un orologio pazzo, dai battiti precipitosi, e invece il suo orologio interno aveva rallentato il cammino.
736 Da chissà quanto, dicendosi che padre Caspar era appena sceso, attendeva una creatura a cui l'aria era ormai mancata da tempo. Da chissà quanto stava attendendo un corpo che giaceva senza vita in qualche punto di quella distesa.
737 Ma se fosse morto non avrebbe dovuto il suo cadavere tornar a galla? No, era ancorato dalle suole di ferro, da cui le sue povere gambe sarebbero uscite solo quando l'azione congiunta delle acque, e di tanti piccoli pesci ingordi, non l'avessero ridotto a uno scheletro.
738 Poi, di colpo, ebbe una intuizione radiosa. Ma di che stava a borbottar nella mente? Ma certo, padre Caspar glielo aveva ben detto, l'Isola che egli vedeva davanti a sé non era l'Isola di oggi, bensì quella di ieri. Al di là del meridiano c'era ancora il giorno prima.
739 Devo aspettare sino a domani, si diceva. E poi: ma Caspar non può aspettare un giorno, l'aria non gli basta! E ancora: ma sono io che debbo aspettare un giorno, lui è semplicemente rientrato nella domenica non appena ha varcato la linea del meridiano.
740 Mio Dio, ma allora l'Isola che vedo è quella di domenica, e se ci è arrivato di domenica, io dovrei già vederlo! No, sto sbagliando tutto. L'Isola che vedo è quella di oggi, è impossibile che io veda il passato come in una sfera magica.
741 E là sull'Isola, solo là — che è ieri. Ma se vedo l'Isola di oggi, dovrei vedere lui, che nello ieri dell'Isola c'è già, e si trova a vivere una seconda domenica... Che poi, arrivato ieri od oggi, dovrebbe aver lasciato sulla spiaggia la campana sventrata, e non la vedo.
742 Con matematica, anzi, cosmografica e astronomica certezza il suo povero amico era perduto. Né si poteva dire dove fosse il suo corpo. In un luogo imprecisato laggiù. Forse esistevano correnti violente sotto la superficie, e quel corpo era ormai in mare aperto.
743 Forse, per fuggire, si era sciolto dai suoi legacci, la campana ancor piena d'aria aveva fatto un balzo in alto, ma la sua parte ferrea aveva frenato quel primo impulso e l'aveva trattenuta a mezz'acqua, chi sa dove. Padre Caspar aveva tentato di liberarsi dei suoi stivali, ma non vi era riuscito.
744 Il tramonto creava un cielo itterico dietro il verde cupo dell'isola, e un mare stigio. Roberto capì che la natura s'attristava con lui e, come talora accade a chi rimane orbato di una persona cara, a poco a poco non pianse più la sventura di quella, ma la propria, e la propria solitudine ritrovata.
745 Decise di riesplorare il suo rifugio per capire quanto avrebbe potuto sopravvivere a bordo. Le galline continuavano a deporre le uova, ed era nata una nidiata di pulcini. Dei vegetali raccolti non ne rimanevano molti, erano ormai troppo secchi, e avrebbero dovuto essere usati come mangime per i volatili.
746 Poi rifletté che, non mangiando vegetali freschi, si moriva di scorbuto. C'erano quelli della serra, ma essa sarebbe stata annaffiata per vie naturali solo se fosse scesa la pioggia: se sopravveniva una lunga siccità avrebbe dovuto bagnare le piante con l'acqua per bere.
747 Guardava la fiamma della lucerna, e vi scorgeva nascere due fuochi: in basso essa era rossa, dove s'incorporava alla materia corruttibile, ma alzandosi dava vita alla sua lingua estrema, di un bianco accecante che sfumigava in un apice pervinca.
748 Volle celebrare, dopo alcuni giorni di tradimento, quella sua riconciliazione con l'ombra e risalì sul ponte mentre le ombre si dilatavan dappertutto, sulla nave, sul mare, sull'Isola, dove si scorgeva ormai soltanto il rapido imbrunire dei colli.
749 Cercò, memore delle sue campagne, di scorgere sulla riva la presenza delle lucciole, vive faville alate vaganti per il buio delle siepi. Non le vide, meditò sugli ossimori degli antipodi, dove forse le lucciole lucono solo nel meriggio.
750 Poi si era coricato sul castello di poppa, e si era posto a guardare la luna, lasciandosi cullare dal ponte, mentre dall'Isola proveniva il rumore della risacca, misto a un frinire di grilli, o dei loro affini di quell'emisfero.
751 Quella notte era sul punto di decidere che sarebbe rimasto per tutti i giorni a venire sulla nave. Ma alzando gli occhi al cielo aveva visto un gruppo di stelle che di un tratto sembrarono mostrargli il profilo di una colomba ad ali tese, che recava in bocca un ramo d'ulivo.
752 Ora è vero che nel cielo australe, poco distante dal Cane Maggiore, era già stata individuata da almeno quarant'anni una costellazione della Colomba. Ma non sono affatto sicuro che Roberto, da dov'era, in quell'ora e in quella stagione avrebbe potuto scorgere proprio quelle stelle.
753 Tanto per cominciare, i colombi vengono da Cipro, isola sacra a Venere. Apuleio, ma anche altri prima di lui, raccontava che il carro di Venere è tirato da candidissime colombe, chiamate appunto uccelli di Venere per la loro smodata lascivia.
754 Altri ricordano che i Greci chiamavano peristera la colomba perché in colomba fu trasformata, da Eros invidioso, la ninfa Peristera — amatissima da Venere — che l'aveva aiutata a sconfiggerlo in una gara tra chi raccogliesse più fiori.
755 Eliano dice che le colombe furono consacrate a Venere perché sul monte Erice in Sicilia si celebrava una festa quando la dea passava sulla Libia; in quel giorno, su tutta la Sicilia, non si vedevano più colombe, perché tutte avevano traversato il mare per andare a far corteo alla dea.
756 Però le colombe son qualcosa di più e di meglio di una Semiramide, e ci si innamora di esse perché hanno quest'altra tenerissima caratteristica, che piangono, o gemono, in luogo di cantare, come se tanta passione soddisfatta non le rendesse mai sazie.
757 Eppure il fatto che questi uccelli si bacino e che siano così lascivi — e questa è una bella contraddizione che contrassegna la colomba — è anche prova che siano fedelissimi, e per questo sono al tempo stesso il simbolo della castità, almeno nel senso della fedeltà coniugale.
758 Siccome tutti i popoli hanno ritenuto nobilissima l'aria, hanno onorato la colomba che vola più in alto degli altri uccelli, eppure torna sempre fedele al proprio nido. Cosa che fa certo anche la rondine, ma nessuno è mai riuscito a renderla amica alla nostra specie e domesticarla, mentre la colomba sì.
759 Gli Ebrei dicevano che colombe e tortore sono gli uccelli più perseguitati, e pertanto degni dell'altare, perché meglio vale essere perseguitati che persecutori. Per l'Aretino, invece, che non era mite come gli Ebrei, chi colomba si fa, il falcon se la mangia.
760 Vuole una leggenda che vi sia in India un albero fronzuto e verdeggiante che si chiama in greco Paradision. Sulla sua parte destra abitano le colombe e non si discostano mai dall'ombra che esso spande; se si allontanassero dall'albero sarebbero preda di un dragone che è loro nemico.
761 Tuttavia, per trepida che sia, la colomba ha qualcosa della prudenza del serpente, e se nell'Isola c'era un dragone, la Colomba Color Arancio sapeva il fatto suo: infatti si vuole che la colomba voli sempre sull'acqua perché, se lo sparviero le viene addosso, ella ne vede l'immagine riflessa.
762 Con tutte queste varie e assai difformi qualità, è toccato alla colomba di diventare anche simbolo mistico, e non ho proprio bisogno di tediare il lettore con la storia del Diluvio, e della parte avuta da questo uccello nell'annunciare la pace e la bonaccia, e nuove terre emerse.
763 Parrà a chi legge che la colomba di significati ne avesse anche troppi. Ma se si deve scegliere un simbolo o un geroglifico, e morirvi sopra, che i suoi sensi sian molti, altrimenti tanto vale dire pane al pane e vino al vino, o atomo all'atomo e vuoto al vuoto.
764 Non so quanto Roberto sapesse delle cabale degli Ebrei che pure andavano molto di moda in quello scorcio di tempo ma, se frequentava il signor Gaffarel, di cose aveva dovuto sentirne: il fatto è che gli Ebrei sulla colomba avevano costruito interi castelli.
765 Tutto ciò che contengono le Sacre Scritture di prima facie riluce come argento, ma il suo senso occulto brilla come l'oro. L'inviolabile castità della parola di Dio, nascosta agli occhi dei profani, è come coperta da un velo di pudicizia, e sta nell'ombra del mistero.
766 E però questo segreto, come la colomba, sfugge e non si sa mai dove sia. La colomba sta a significare che il mondo parla per geroglifici e quindi è essa stessa il geroglifico che significa i geroglifici. E un geroglifico non dice e non nasconde, solo mostra.
767 Dal venerabile Isidoro in avanti anche i cristiani avevano ricordato che la colomba, riflettendo nel suo volo i raggi del sole che la illumina, ci appare in colori diversi. Essa dipende dal sole, e ne sono imprese Dal Tuo Lume i Miei Fregi, oppure Per te m'adorno e splendo.
768 Per finire, ammesso che Roberto ne sapesse qualcosa, trovo nel Talmud che i potenti di Edom avevano decretato contro Israele che avrebbero strappato il cervello a chi portasse il filatterio. Ora Eliseo l'aveva messo ed era uscito per la strada.
769 Irraggiungibile l'Isola, perduta Lilia, flagellata ogni sua speranza, perché non doveva l'invisibile Colomba Color Arancio trasformarsi nella medulla aurea, nella pietra filosofale, nel fine dei fini, volatile come ogni cosa che passionatamente si vuole.
770 Stava a galla, ormai quello l'aveva imparato. Doveva ora apprendere a muovere braccia e gambe, come facevano i cani con le zampe. Provò alcuni movimenti, continuò per qualche minuto, e si rese conto che si era allontanato dalla scaletta di pochissime braccia.
771 Si sentiva nuovamente in forze. Dunque, doveva muovere sino a che si stancava, poi riposare come un morto per qualche minuto, quindi ricominciare. I suoi spostamenti sarebbero stati minimi, il tempo lunghissimo, ma così si doveva fare.
772 Dopo qualche prova aveva preso una coraggiosa decisione. La scaletta scendeva alla destra del bompresso, dalla parte dell'Isola. Ora avrebbe tentato di raggiungere il lato occidentale della nave. Poi si sarebbe riposato e sarebbe infine tornato.
773 Il passaggio sotto il bompresso non fu lungo, e il poter mirare la prua dall'altra parte fu una vittoria. Si abbandonò a faccia in alto, braccia e gambe larghe, coll'impressione che da quel lato l'onda lo cullasse meglio che dall'altro.
774 A un certo punto aveva avvertito uno strappo alla vita. Il canapo si era teso al massimo. Si era rimesso in posizione canina e aveva capito: il mare lo aveva condotto verso nord, spostandolo a sinistra della nave, molte braccia oltre la punta del bompresso.
775 Preoccupato, volle provare a tornare verso la Daphne con le proprie forze, e si avvide che, se appena dimenandosi canino si avvicinava di qualche palmo, nel momento stesso in cui rallentava per prender fiato, il canapo si tendeva di nuovo, segno che egli era tornato indietro.
776 Si era aggrappato alla corda e l'aveva tirata a sé, girando su se stesso per avvoltarsela alla vita, così che in breve era tornato alla scaletta. Una volta a bordo aveva deciso che tentare di raggiungere la riva a nuoto era pericoloso.
777 Doveva costruirsi una zattera. Guardava quella riserva di legname che era la Daphne, e si rendeva conto di non avere nulla con cui sottrarle anche il menomo tronco, a meno di passare gli anni a segar un albero con il coltello.
778 La porta aveva galleggiato dapprima accidiosa, ma dopo meno di un minuto era già distante dalla nave e veniva trascinata dapprima verso il lato sinistro della nave, più o meno nella direzione in cui egli stesso era andato, poi verso nordest.
779 Ora correva come avrebbe fatto la Daphne se avesse tolto l'ancora. Roberto riuscì a seguirla a occhio nudo sino a che non ebbe oltrepassato il capo, poi dovette prendere il cannocchiale, e la vide ancora procedere velocissima oltre il promontorio per lungo tratto.
780 Considerò che, se il centottantesimo meridiano si stendeva lungo una linea ideale che, a metà della baia, congiungeva i due promontori, e se quel fiume piegava il proprio corso subito dopo la baia orientandosi verso nord, allora oltre il promontorio esso fluiva esattamente lungo il meridiano antipodo.
781 In quel momento però i suoi pensieri furono altri. Se fosse stato sulla tavola, non avrebbe avuto modo di opporsi alla corrente, se non con qualche movimento delle mani. Ci voleva già una gran fatica a dirigere il proprio corpo, figuriamoci una porta senza prua, senza poppa e senza timone.
782 Impossibile, almeno allo stato delle sue conoscenze, idrostatiche o idrodinamiche che fossero. Meglio continuare a fidare nel nuoto. Raggiunge più facilmente la riva, dal centro di una corrente, un cane che sgambetta che non un cane dentro un cesto.
783 Quello che gli mancava era il giusto respiro. Riusciva ad andare ma non a tornare... Era diventato nuotatore, ma come quel signore di cui aveva udito parlare, che aveva fatto tutto il pellegrinaggio da Roma a Gerusalemme, mezzo miglio al giorno, avanti e indietro nel suo giardino.
784 Roberto non mostra di sapere che, nuotando, si sarebbe rafforzato, e pare pensar piuttosto a rafforzarsi per poter nuotare. Lo vediamo quindi ingollare due, tre, quattro tuorli d'uovo in un sol colpo, e divorarsi una gallina intera prima di tentare un nuovo tuffo.
785 Eccolo alla sera meditare su questa nuova contraddizione. Prima, quando neppure sperava di poterla raggiungere, l'Isola pareva ancora a portata di mano. Ora, che stava imparando l'arte che lo avrebbe condotto laggiù, l'Isola s'allontanava.
786 Vede pappagalli tra le foglie, individua dei frutti, segue dall'alba al tramonto il ravvivarsi e lo spegnersi di colori diversi nella verzura, ma non vede la Colomba. Ricomincia a pensare che padre Caspar gli abbia mentito, o di esser stato vittima di una sua facezia.
787 Ma possedere l'Isola non era possedere Lilia? E allora? La logica di Roberto non era quella di quei filosofi ferlocchi e babignocchi, intrusi nell'atrio del Liceo, che vogliono sempre che una cosa, se è in tal modo, non possa anche essere nel modo opposto.
788 Roberto sapeva che la gelosia si forma senza alcun rispetto per quel che è, o che non è, o che forse non sarà mai; che è un trasporto che da un male immaginato trae un dolore reale; che il geloso è come un ipocondriaco che diventa malato per paura di esserlo.
789 Quindi guai, si diceva, lasciarsi prendere da questa ciancia dolorifica che ti obbliga a raffigurarti l'Altra con un Altro, e nulla come la solitudine sollecita il dubbio, nulla come il fantasticare trasforma il dubbio in certezza.
790 Se la gelosia nasce dall'intenso amore, chi non prova gelosia per l'amata non è amante, o ama a cuor leggero, tanto che si sa di amanti i quali, temendo che il loro amore si quieti, l'alimentano trovando a ogni costo ragioni di gelosia.
791 Cosa ne guadagnava Roberto? Molto. Decidendo di inventare la storia di un altro mondo, che esisteva solo nel suo pensiero, di quel mondo diventava padrone, potendo far sì che le cose che vi accadevano non andassero al di là delle sue capacità di sopportazione.
792 D'altro canto, diventando lettore del romanzo di cui era autore, poteva partecipare ai crepacuori dei personaggi: non accade a lettori di romanzi che possano senza gelosia amare Tisbe, usando Piramo come loro vicario, e patire per Astrea attraverso Celadone.
793 Amare nel Paese dei Romanzi non significava provare gelosia alcuna: laggiù quello che non è nostro in qualche modo è pur nostro, e quello che nel mondo era nostro, e ci è stato sottratto, lì non esiste — anche se ciò che vi esiste assomiglia a ciò che di esistente non abbiamo o abbiamo perduto.
794 Da quando riprendere la storia di Ferrante? Roberto ritenne opportuno partire da quel giorno che costui, traditi i francesi con cui fingeva di combattere a Casale, dopo essersi fatto passare per il capitano Gambero, si era rifugiato nel campo spagnolo.
795 Aveva capito che, quando non ci si può vestire della pelle del leone ci si veste di quella della volpe, perché dal Diluvio si sono salvate più volpi che leoni. Ogni creatura ha la sua propria sapienza, e dalla volpe aveva appreso che giocare scopertamente non procura né utile né piacere.
796 Nell'eliminare i propri nemici, che all'inizio erano paggi e staffieri, poi gentiluomini che lo credevano loro pari, aveva stabilito che si doveva mirare di lato, mai di fronte: la sagacia si batte con ben studiati sotterfugi e non agisce mai nel modo previsto.
797 Però non agiva neppure con troppa franchezza, e comunque non sempre, temendo che gli altri si sarebbero accorti di questa sua uniformità e avrebbero un giorno prevenuto le sue azioni. Ma neppure esagerava nell'agire con doppiezza, temendo che dopo la seconda volta avrebbero scoperto il suo inganno.
798 Viveva insomma giorno per giorno come un assassino che guati fermo dietro un cortinaggio, dove le lame dei pugnali non mandino luce. Sapeva che la prima regola del successo era attendere l'occasione, ma soffriva perché l'occasione gli pareva ancor lontana.
799 Le balze del monte parevano cariche di latte rappreso, tutte e quante ingessate di biacca. Quei pochi alberi che non erano del tutto sepolti sotto la neve si vedevano così bianchi che parevano essersi spogliati della camicia e tremassero più per il freddo che per il vento.
800 I radi passeggeri che s'incontravano su quel cammino parevano tanti monachetti di Monteoliveto che andassero cantando lavabis me et super nivem dealbabor... E Ferrante stesso, vedendosi così bianco, si sentiva trasformato in un infarinato della Crusca.
801 Una notte dal cielo venivano così spessi e grossi i fiocchi della bambagia che, come altri diventò statua di sale, lui dubitava di esser divenuto statua di neve. I barbagianni, i pipistrelli, i saltabecchi, i farfalloni e le civette gli facevan le moresche attorno come se lo volessero uccellare.
802 Ma Ferrante non si accontentava d'essere spia, e di aver in proprio potere coloro di cui riferiva i pensieri, ma voleva essere, come si diceva a quell'epoca, uno spione doppio, che come il mostro della leggenda fosse capace di camminare per due movimenti contrari.
803 Miele per le orecchie di quegli antipapisti che cercavano ogni occasione per poter documentare le turpitudini del clero cattolico. E non c'era neppur bisogno che Ferrante confessasse ciò che non sapeva. Gli inglesi avevano già tra le mani la confessione anonima, presunta, o vera, di un altro prete.
804 Ferrante si faceva confidare dagli agenti turchi le notizie che avevano raccolto sulla Francia, e le spediva a volta di corriere all'ammiragliato inglese, ricevendone nuovo compenso. Quindi era tornato da Richelieu e gli aveva rivelato l'esistenza, a Parigi, di una cabala turca.
805 Roberto non poteva pensare che Ferrante, in tutto e per tutto simile a lui, gli fosse accanto in quelle serate ormai lontane, ma ricordava di aver visto un abate anziano con una benda nera sull'occhio, e decise che quello doveva esser Ferrante.
806 Per prima cosa lo aveva spiato, per settimane e settimane nel corso di quelle serate, scrutandone il volto per cogliervi la traccia di ogni pensiero. Uso com'era a celare, era anche abilissimo a scoprire. D'altra parte l'amore non si può nascondere: come ogni fuoco, si svela col fumo.
807 Ferrante si era accorto che Roberto, dopo aver attratto l'attenzione della Signora col suo discorso, non aveva avuto animo d'avvicinarla. L'impaccio del fratello giocava in suo favore: la Signora poteva intenderlo come disinteresse, e disprezzare una cosa è il miglior espediente per conquistarla.
808 Ecco Lilia, che mostra i segni della virtù oltraggiata, a tal segno che chiunque avrebbe prestato fede alla sua indignazione, meno un uomo come Ferrante, disposto a credere gli esseri umani tutti disposti all'inganno. Ecco Ferrante che cade in ginocchio di fronte a lei, e parla.
809 Così, mentre Ferrante baciava, ed ella ribaciava, ecco che il bacio si scioglieva in nulla, e a Roberto non rimaneva che la certezza d'essere stato derubato di tutto. Ma non poteva evitare di pensare a quello che rinunciava a immaginare: sapeva che è nella natura dell'amore essere nell'eccesso.
810 Per due giorni Roberto fuggì di nuovo la luce. Nei suoi sonni vedeva soltanto dei morti. Gli si erano irritate le gengive e la bocca. Dai visceri i dolori si erano propagati al petto, poi alla schiena, e vomitava sostanze acide, benché non avesse preso cibo.
811 Come a dire che rende le sue vittime quasi fuori di senno, i sensi si smarriscono, l'intelletto s'intorbidisce, l'immaginativa ne è depravata, e il povero amoroso dimagra, si smunge, gli occhi gli si infossano, sospira, e si stempera di gelosia.
812 Aveva sentito parlare delle partite di caccia come incoraggiamento alla dimenticanza, e stabilì che doveva intensificare le sue imprese natatorie, e senza riposarsi sul dorso; ma tra le sostanze che eccitano i sensi c'era il sale, e di sale, nuotando, se ne beve abbastanza.
813 Non cessava certo di pensare alla storia che aveva evocato, ma l'irritazione per Ferrante si traduceva ora in scatti di prepotenza, e si misurava col mare come se, sottomettendolo ai suoi voleri, assoggettasse il proprio nemico.
814 Il mare non era calmissimo e delle piccole onde lo gettavano di continuo contro i fianchi, per cui doveva fare un doppio sforzo, sia procedere lungo la nave che cercare di starne discosto. Aveva il respiro pesante, ma procedeva intrepido.
815 Vedeva sul proprio capo la galleria, indovinando dietro le sue vetrate la meta sicura del suo alloggio. Si stava dicendo che, se per caso la scaletta di prua si fosse staccata, avrebbe potuto trascorrere ore e ore, prima di morire, bramando quel ponte che tante volte aveva voluto lasciare.
816 Il sole era stato coperto da una folata di nubi, ed egli già intirizziva. Tese la testa indietro, come per dormire, dopo un poco riapri gli occhi, si rigirò su se stesso, e si rese conto che stava avvenendo quel che aveva temuto: le onde lo stavano allontanando dalla nave.
817 Prese una decisione. Ormai, doppiata la poppa, sia che fosse tornato sul lato destro che se avesse proseguito sul lato sinistro, lo spazio che lo separava dalla scaletta era lo stesso. Quasi tirando a sorte, risolse di nuotare sulla sinistra, stando attento che la corrente non lo separasse dalla Daphne.
818 Con un grido di giubilo era arrivato al bompresso, si era afferrato alla prua, ed era arrivato alla scala di Giacobbe e che lui e tutti i santi patriarchi delle Sacre Scritture fossero benedetti dal Signore, Dio degli Eserciti.
819 Doveva dunque continuare col canapo, e questa volta ben più lungo. Sarebbe andato a oriente tanto quanto le sue forze glielo avessero concesso, e poi sarebbe tornato a rimorchio. Solo esercitandosi in tal modo, per giorni e giorni, avrebbe potuto poi tentare da solo.
820 Scelse un pomeriggio tranquillo, quando il sole era ormai alle sue spalle. Si era provvisto di una corda lunghissima, che stava ben assicurata per un capo all'albero di maestra, e giaceva sul ponte in molte volute, pronta a snodarsi a poco a poco.
821 Nuotava tranquillo, senza stancarsi troppo, riposandosi spesso. Guardava la spiaggia e i due promontori. Solo ora, dal basso, si rendeva conto di quanto fosse lontana quella linea ideale, che si stendeva tra un capo e l'altro da sud a nord, e oltre la quale sarebbe entrato nel giorno prima.
822 Avendo mal compreso padre Caspar, si era convinto che il barbacane dei coralli iniziasse solo là dove piccole onde bianche rivelavano i primi scogli. Invece, anche durante la bassa marea, i coralli iniziavano prima. Altrimenti la Daphne si sarebbe ancorata più vicino a terra.
823 Così era andato a urtare con le gambe nude contro qualcosa che si lasciava scorgere a mezz'acqua, solo quando c'era già sopra. Quasi contemporaneamente fu colpito da un movimento di forme colorate sotto la superficie, e da un bruciore insopportabile alla coscia e alla tibia.
824 Si era afferrato alla corda tirando con tal foga che, tornato a bordo, aveva le mani escoriate; ma era più impensierito dal male alla gamba e al piede. Erano agglomeramenti di pustole molto dolorose. Le aveva lavate con acqua dolce, e questo aveva lenito in parte il bruciore.
825 L'ultima conclusione gli fece ricordare quella Persona Vitrea, o maschera per vedere nel mare, che padre Caspar gli aveva mostrato. Provò ad affibbiarsela alla nuca, e scopri che gli chiudeva il volto permettendogli di guardar fuori come da una finestra.
826 Provò a respirarvi, e si accorse che un poco d'aria passava. Se passava l'aria sarebbe passata anche l'acqua. Si trattava dunque di usarla trattenendo il fiato — quanta più aria vi sarebbe restata tanta meno acqua sarebbe entrata — e venir su non appena fosse piena.
827 Sottrarre Lilia a Roberto, era solo uno dei due fini che Ferrante si era proposto. L'altro era far cadere Roberto in disgrazia presso il Cardinale. Progetto non facile: il Cardinale, di Roberto, ignorava addirittura l'esistenza.
828 Così dicendo Ferrante si preparava al momento in cui, rovinato il fratello, egli avrebbe potuto sostituirlo passando per l'unico e vero Roberto, non solo agli occhi dei parenti rimasti alla Griva, ma agli occhi di Parigi tutta — come se l'altro non fosse mai esistito.
829 Quindi aveva insufflato al Cardinale che il falso Roberto de la Grive, che tanto sapeva su un segreto caro agli inglesi, evidentemente cospirava, e gli aveva anche prodotto dei testimoni, i quali potevano asserire di aver visto Roberto con questo o con quello.
830 Come si vede, un castello di bugie e travestimenti che spiegava il trabocchetto in cui Roberto era stato attirato Ma Roberto vi era caduto per ragioni e in modi ignoti allo stesso Ferrante, i cui piani erano stati sconvolti dalla morte di Richelieu.
831 Morto Richelieu, gli manca ogni appoggio. Dovrebbe stabilire contatti con Mazarino, poiché l'indegno è una trista elitropia che si volge sempre in direzione del più potente. Ma non può recarsi dal nuovo ministro senza fornirgli una prova di quanto egli valga.
832 Ferrante non osa mostrarsi in giro sotto le vesti di Roberto, per non risvegliar i sospetti di chi lo sappia lontano. Per quanto possa essere accaduto tra lui e Lilia, cessa anche ogni contatto con Lei, impassibile come chi sa che ogni vittoria costa tempi lunghi.
833 Colbert non è un ingenuo. Quell'abate ha una voce che gli pare familiare, le poche cose che gli dice suonano sospette, chiama due guardie, si avvicina al visitatore, gli strappa e la benda e la barba, e a chi si ritrova di fronte.
834 Abbiamo così in scena due uomini, di cui ciascuno non sa nulla di quel che crede che l'altro sappia, e per ingannarsi a vicenda parlano ciascuno per allusioni, ciascuno dei due vanamente sperando che l'altro abbia la chiave di quella cifra.
835 È proprio vero che gli dèi accecano coloro che vogliono perdere. Ferrante riteneva di suscitare interesse mostrando come egli conoscesse i più riservati segreti del defunto Cardinale, e aveva trasceso, per orgoglio di sicofante che si voleva mostrar sempre meglio informato del proprio padrone.
836 E dunque si era deciso di mettere la nave agli ormeggi non lontano dall'estuario della Senna, in una piccola baia quasi nascosta, che sfuggiva persino ai pellegrini di San Giacomo che passavano poco distante venendo dalle Fiandre.
837 Certo Ferrante, impastato di dissapori, non era capace di vero amore ma, si diceva Roberto, ci sono persone che non si sarebbero mai innamorate se non avessero inteso parlare dell'amore. Forse Ferrante trova nella sua cella un romanzo, lo legge, si convince di amare pur di sentirsi altrove.
838 Forse ella, nel corso di quel loro primo incontro, aveva donato a Ferrante il suo pettine in pegno d'amore. Ora Ferrante lo stava baciando, e baciandolo naufragava dimentico nel golfo di cui l'eburneo rostro aveva solcato i flutti.
839 Forse, chissà, anche un discolo di quella fatta poteva cedere al ricordo di quel volto... Roberto ora vedeva Ferrante seduto nel buio davanti allo specchio che, per chi vi stava a lato, rifletteva solo la candela posta di fronte.
840 Ricordava a quale distanza dalla nave si era ferito, e quindi dapprima nuotò con calma portando la maschera alla cintola. Quando ritenne di essere arrivato vicino al barbacane si infilò la maschera e mosse alla scoperta del fondo marino.
841 In quel paesaggio, che Roberto non sa descrivere perché lo vede per la prima volta, e non trova nella memoria immagini per poterlo tradurre in parole, ecco che improvvisamente irruppe una schiera di esseri che — questi sì — egli poteva riconoscere, o almeno paragonare a qualcosa di già visto.
842 Erano pesci che si intersecavano come stelle cadenti nel cielo d'agosto, ma nel comporre e assortire i toni e i disegni delle loro squame pareva che natura avesse voluto dimostrare quale varietà di mordenti esista nell'universo e quanti ne possano stare insieme su una sola superficie.
843 Solo in quel momento, vedendo sullo sfondo dei pesci le forme coralline che non aveva potuto riconoscere a prima vista, Roberto individuava cespiti di banane, panieri di micche di pane, corbelli di nespole bronzine sulle quali passavano canarini e ramarri e colibrì.
844 Quello che vedeva ora non era un pesce, ma neppure una foglia, certo era cosa vivente, come due larghe fette di materia albicante, bordate di chermisi, e un ventaglio di piume; e là dove ci si sarebbero attesi degli occhi, due corna di ceralacca agitata.
845 I coralli erano stati per Roberto una sfida. Dopo aver scoperto di quante invenzioni fosse capace la Natura, si sentiva invitato a una gara. Non poteva lasciar Ferrante in quella prigione, e la propria storia a metà: avrebbe soddisfatto il suo astio per il rivale, ma non il suo orgoglio di fabulatore.
846 Ma quel giorno Roberto si era messo in capo di aver visto qualcosa levarsi dagli alberi verso il sole, e poi confondersi nella sua sfera luminosa. Probabilmente era un'illusione. Qualsiasi altro uccello, in quella luce, sarebbe parso rilucente.
847 In ogni caso Ferrante, ignaro degli Antipodi, non poteva porsi tali quesiti. Aveva visto la colomba, dapprima l'aveva nutrita con qualche briciola di pane, per puro passatempo, poi si era chiesto se non poteva usarla per i suoi fini.
848 A chi poteva chiedere aiuto, lui che per inimicizia con tutti, se stesso compreso, si era fatto solo nemici, e le poche persone che l'avevano servito erano sfrontati disposti a seguirlo solo nella fortuna, e non certo nella sventura.
849 Ferrante non sapeva che invece essa era stata presa nella pegola di un contadino, che aveva pensato di trarre partito da quello che, secondo ogni evidenza, era un segnale inviato a qualcuno, forse al comandante di un esercito.
850 Qui Roberto non sapeva come andare avanti. Se lui fosse stato moschettiere del Re, o cadetto di Guascogna, Lilia avrebbe potuto rivolgersi a quei valorosi, famosissimi per il loro spirito di corpo. Ma chi rischia l'ira di un ministro, forse del Re, per uno straniero che frequenta bibliotecari e astronomi.
851 Dei quali bibliotecari e astronomi, meglio non parlare: per quanto deciso al romanzo, Roberto non poteva pensare al Canonico di Digne, o al signor Gaffarel che galoppavano ventre a terra verso la sua prigione — e cioè verso quella di Ferrante, che per tutti era ormai Roberto.
852 Roberto aveva avuto una ispirazione qualche giorno dopo. Aveva lasciato la storia di Ferrante, e aveva ripreso a esplorare il barbacane corallino. Quel giorno seguiva una schiera di pesci con una celata gialla sul muso, che sembravano guerrieri volteggianti.
853 E se è possibile che esistano esseri che vivono sotto le acque, potrebbero allora esistere esseri che vivono sotto la terra, popoli di salamandre capaci di raggiungere attraverso le loro gallerie il fuoco centrale che anima il pianeta.
854 E non è detto che debbano vivere al buio. Forse ci sono moltissimi fori sulla crosta del satellite, e l'interno riceve luce da migliaia di sfiatatoi, è una notte attraversata da fasci di luce, non diverso da quanto ci accade in una chiesa, o sulla Daphne nel sottoponte.
855 Oppure no, in superficie esistono sassi fosforici che di giorno s'imbevono della luce del sole e poi la restituiscono di notte, e i lunatici fanno incetta di questi sassi a ogni tramonto, in modo che le loro gallerie siano sempre più splendenti di un palazzo reale.
856 E il loro signore era là, al centro di una sala le mille leghe sotto la superficie della città, seduto su di un barilotto, attorniato da tagliaborse, barattieri, falsardi e cantimbanchi, ribaldaglia maestra di ogni abuso e magagna.
857 Roberto immaginava Ferrante, mentre al tramonto si intratteneva sul torrazzo del fortino col capitano Biscarat, che all'improvviso li aveva visti arrivare. Erano dapprima apparsi sulle dune, per poi dilagare verso la spianata.
858 Infatti í pellegrini, in fila lunghissima, si stavano avvicinando sempre più alla costa, e si scorgeva una matta di ciechi a mani tese, di monchi sulle loro grucce, di lebbrosi, cisposi, impiagati e scrofolosi, un accozzamento di storpi, zoppi e strambi, vestiti di filacce.
859 Ora si poteva scorgerli uno per uno, e non assomigliavano affatto a pellegrini, né a infelici che chiedessero sollievo per le loro tigne. Senza dubbio — diceva Biscarat preoccupato — erano malarrivati, venturieri raccogliticci.
860 I quali amici ormai avevano raggiunto e oltrepassato le merlature, prodighi delle loro vite cadevano di fronte agli ultimi colpi di moschetto, noncuranti dei loro petti superavano la barriera delle spade tese, terrorizzando le guardie coi loro occhi laidi, coi loro volti stravolti.
861 Ferrante, dopo essere stato liberato della sua maschera, per prima cosa aveva liberato i pirati, e aveva sottoscritto con loro un patto. Si trattava di riprendere la nave e veleggiare ai suoi ordini senza fare domande. Ricompensa, la parte di un tesoro vasto quanto il calderon dell'Altopascio.
862 Come suo costume, Ferrante non pensava affatto di mantener la parola. Una volta ritrovato Roberto, sarebbe bastato denunciare la propria ciurma al primo approdo, e li avrebbe avuti tutti appiccati, rimanendo padrone della nave.
863 Dei pitocchi non aveva più bisogno, e il loro capo, da uomo leale, gli disse che avevano già ricevuto la loro paga per quella impresa. Voleva lasciare quella zona al più presto. Si dispersero nel retroterra e ritornarono a Parigi mendicando di villaggio in villaggio.
864 Fu facile salire su di una barca custodita nella darsena del forte, arrivare alla nave e buttare a mare i due soli uomini che la presidiavano. Biscarat fu incatenato nella stiva, poiché era un ostaggio di cui si sarebbe potuto far commercio.
865 I loro visi si erano avvicinati per raccogliere messe di baci da un'antica semente di sospiri, e in quell'attimo Roberto attinse nel pensiero a quel labbro di rosa carnicina. Ferrante baciava Lilia, e Roberto si figurava nell'atto e nel brivido di mordere quel veritiero corallo.
866 Ma, a quel punto, sentiva che essa gli sfuggiva come un soffio di vento, ne perdeva il tepore che aveva creduto di avvertire per un attimo, e la vedeva gelida in uno specchio, in altre braccia, su un talamo lontano in altra nave.
867 A difendere gli amanti aveva fatto scendere una coltrina di avara trasparenza, e quei corpi ormai scoperti erano libri di solare negromanzia, i cui accenti sacri si rivelavano a due soli eletti, che si sillabavano a vicenda bocca a bocca.
868 E d'altra parte che sapevo io ancora pochi mesi fa della Terra Australe? Avrei detto che era l'uzzolo di geografi eretici, e forse chissà che in queste isole nei tempi andati non abbiano bruciato qualche loro filosofo che sosteneva gutturalmente che esistono il Monferrato e la Francia.
869 Così l'arte di volare è ancora ignota eppure — a dar retta a un certo signor Godwin di cui mi parlava il dottor d'Igby — un giorno si andrà sulla luna, come si è andati in America, anche se prima di Colombo nessuno sospettava che esistesse quel continente, né che si potesse un giorno chiamare così.
870 C'è un'atmosfera che avvolge la luna. Nella domenica delle Palme di quarant'anni fa non ha visto qualcuno, mi hanno detto, delle nuvole sulla luna? Non si vede su quel pianeta una gran trepidazione nell'imminenza di una eclisse.
871 E come saranno gli abitanti dei pianeti più vicini al sole? Focosi come i Mori, ma assai più spirituali di noi. Di che grandezza vedranno il sole? Come ne possono sopportare la luce? Forse laggiù i metalli si fondono in natura e scorrono a fiumi.
872 Ma davvero ci sono infiniti mondi? Per una questione del genere a Parigi nasceva un duello. Il Canonico di Digne diceva di non sapere. Ovvero, lo studio della fisica lo inclinava a dire di sì, sulla scorta del grande Epicuro. Il mondo non può essere che infinito.
873 Atomi che si affollano nel vuoto. Che i corpi esistano, ce lo attesta la sensazione. Che il vuoto esista ce lo attesta la ragione. Come e dove potrebbero altrimenti muoversi gli atomi? Se non ci fosse vuoto non ci sarebbe moto, a meno che i corpi si penetrino tra loro.
874 Sarebbe ridicolo pensare che quando una mosca spinge con l'ala una particola d'aria, questa ne sposta un'altra davanti a sé, e questa un'altra ancora, così che l'agitazione della zampetta di una pulce, sposta e sposta, arriverebbe a produrre un bernoccolo all'altro capo del mondo.
875 Naturalmente, basterebbe pensare a un vuoto finito abitato da atomi in numero finito. Il Canonico mi diceva che questa è l'opinione più prudente. Perché volere che Dio sia obbligato come un capocomico a produrre infiniti spettacoli.
876 Stolto, dicono alcuni: puoi parlare dell'infinità di Dio perché non sei chiamato a concepirla con la tua mente, ma soltanto a credervi, come si crede a un mistero. Ma se vuoi parlare di filosofia naturale, questo mondo infinito dovrai pure concepirlo, e non puoi.
877 Forse. Ma pensiamo allora che il mondo sia pieno e sia finito. Cerchiamo di concepire allora il niente che vi è dopo che il mondo abbia termine. Quando pensiamo a quel niente, possiamo forse immaginarcelo come un vento? No, perché dovrebbe essere davvero niente, neppure vento.
878 Roberto si trovava a godere di un gran privilegio, che dava senso alla sua disdetta. Eccolo ad avere la prova evidente dell'esistenza di altri cieli e, al tempo stesso, senza dover salire oltre le sfere celesti, a indovinare molti mondi in un corallo.
879 Una volta, a proposito del vuoto, padre Caspar lo aveva messo a tacere con un sillogismo a cui non aveva saputo rispondere: il vuoto è non essere, ma il non essere non è, ergo il vuoto non è. L'argomento era buono, perché negava il vuoto pur ammettendo che si potesse pensarlo.
880 Infatti si possono benissimo pensare cose che non esistono. Può una chimera che ronza nel vuoto mangiare intenzioni seconde? No, perché la chimera non esiste, nel vuoto non si ode alcun ronzio, le seconde intenzioni sono cose mentali e non ci si nutre di una pera pensata.
881 Forse lui era già entrato in uno di questi universi dove, dal momento in cui un atomo d'acqua aveva incominciato a corrodere la scorza di un corallo morto, e quello aveva leggermente cominciato a sgretolarsi, erano passati tanti anni quanto dalla nascita di Adamo alla Redenzione.
882 E non stava lui vivendo il proprio amore in questo tempo, dove Lilia, come la Colomba Color Arancio, erano diventati qualcosa per la cui conquista aveva a disposizione ormai il tedio dei secoli? Non stava forse disponendosi a vivere in un infinito futuro.
883 Era però un amante che, per quanto educato a Parigi, non aveva dimenticato la sua vita in campagna. Perciò si trovò a concludere che il tempo a cui stava pensando si poteva stirare in mille modi come una farina impastata con tuorli d'uovo, e come aveva visto fare dalle donne alla Griva.
884 Non so perché a Roberto fosse venuta in mente questa similitudine — forse il troppo pensare gli aveva eccitato l'appetito oppure, atterrito anche lui dal silenzio eterno di tutti quegli infiniti, avrebbe voluto ritrovarsi a casa nella cucina materna.
885 D'accordo, non è un bel modo di ragionare, e per giunta con la pancia. Ma è evidente che lui aveva già in testa il punto dove voleva arrivare: in quello stesso momento tanti diversi roberti avrebbero potuto far cose diverse, e forse sotto nomi diversi.
886 Forse anche sotto il nome di Ferrante? E allora, quella che egli credeva la storia, che inventava, del fratello nemico, non era forse l'oscura percezione di un mondo in cui a lui, Roberto, stavano accadendo altre vicende da quella che stava vivendo in quel tempo e in quel mondo.
887 Dopo la fuga dalle coste francesi, la prima sosta della Tweede Daphne era stata ad Amsterdam. Là Ferrante poteva trovare, da doppio spione qual era, chi gli rivelasse qualcosa su una nave chiamata Amarilli. Checché ne avesse saputo, dopo qualche giorno era a Londra per cercare qualcuno.
888 Ed ecco Ferrante, dopo aver ricevuto da Lilia un diamante di grande purezza, entrar nottetempo in una stamberga in cui l'accoglie un essere di sesso incerto, che forse era stato eunuco presso i Turchi, con il volto glabro e una bocca così piccola che si sarebbe detto che sorridesse solo muovendo il naso.
889 La stanza in cui si soppiattava era spaventosa per le fuliggini di una catasta d'ossa che bruciavano a fuoco morticcio. In un angolo pendeva impiccato per i piedi un cadavere nudo, che dalla bocca secerneva un sugo color d'ortica in una cocca di oricalco.
890 L'eunuco riconobbe in Ferrante un fratello nel delitto. Udì la domanda, vide il diamante, e tradì i suoi padroni. Condusse Roberto in un'altra stanza, che sembrava la bottega di un'apotecario, piena di barattoli di terra, vetro, stagno, rame.
891 In mezzo alla stanza stava un tavolo, e su di esso un bacile coperto da un panno insanguinato, che l'eunuco gli additò con aria d intesa. Ferrante non capiva, e quello gli disse che egli era giunto proprio da chi faceva al caso suo.
892 E infatti l'eunuco altri non era che colui che aveva ferito il cane del dottor Byrd, e che ogni giorno, all'ora convenuta, temperando nell'acqua di vetriolo la pezza intrisa del sangue dell'animale, o avvicinandola al fuoco, trasmetteva all'Amarilli i segnali che Byrd attendeva.
893 Fu l'eunuco a suggerirgli il modo di procedere senza sbagliare rotta: sarebbe bastato che si fosse ferito un'altro cane, e che egli ogni giorno avesse agito su un assaggio del suo sangue, come faceva per il cane dell'Amarilli, e Ferrante avrebbe ricevuto gli stessi messaggi quotidiani che riceveva Byrd.
894 Disceso nella stiva, Ferrante aveva incatenato Biscarat su due pali incrociati di traverso poi, di propria mano, con una lama gli aveva profondamente inciso il fianco. Mentre Biscarat mugolava, l'eunuco aveva raccolto il sangue che colava con un panno che aveva riposto in un sacchetto.
895 Non volle più immaginare il seguito, e scrisse piuttosto una invocazione alla Natura, affinché — come una madre, che vuol costringere il bambino a dormir nella culla, gli tende sopra un panno e lo copre di una piccola notte — distendesse la grande notte sul pianeta.
896 Nel soffiare sulla lucerna le sue mani furono illuminate soltanto da un raggio lunare che penetrava dall'esterno. Si levò una nebbia dal suo stomaco al cervello e, ricadendo sulle palpebre, le rinchiuse, così che lo spirito non s'affacciasse più a vedere alcun oggetto che lo svagasse.
897 Andava dunque ora il naviglio scorrendo per i liquidi campi e i pirati erano docili. Vegliando sul viaggio dei due amanti, si limitavano a scoprire mostri marini e, prima di arrivare sulle coste americane, avevano visto un Tritone.
898 Per quanto era visibile al di fuori dell'acque, aveva forma umana, salvo che le braccia erano troppo corte rispetto al corpo: le mani erano grandi, i capelli grigi e spessi, e portava una barba lunga sino allo stomaco. Aveva occhi grandi e la pelle scabra.
899 Come fu avvicinato, parve arrendevole e mosse verso la rete. Ma non appena sentì che lo tiravano verso la barca, e prima ancora che si fosse mostrato al di sotto dell'ombelico per rivelare se avesse coda di sirena, ruppe la rete con un sol colpo, e scomparve.
900 Su di un trono lercissimo stava il Re, che con un gesto della mano aveva suscitato un concerto di martelli, trivelle che scricchiavano su lastre di pietra, e coltelli che stridevano su piatti di porcellana, al cui suono erano apparsi sei uomini tutti pelle e ossa, abominevoli per lo sguardo sbilenco.
901 Dopo la danza, non avendo ancora udito parole e ritenendo che su quell'isola si parlasse una lingua diversa dalla loro, i nostri viaggiatori tentarono di fare domande coi gesti, che sono una lingua universale con cui si può comunicare anche coi Selvaggi.
902 Ripreso il viaggio, avevano toccato una terza isola che pareva deserta, e Ferrante si era inoltrato, solo con Lilia, verso l'interno. Mentre andavano, udirono una voce che li avvertiva di fuggire: quella era l'Isola degli Uomini Invisibili.
903 In una quarta isola trovarono un uomo dagli occhi incavati, la voce sottile, la faccia che era una sola ruga, ma dai colori freschi. La barba e i capelli erano fini come bambagia, il corpo così rattrappito che se aveva bisogno di voltarsi doveva girare su se stesso per intero.
904 E disse che aveva trecentoquarant'anni, e in quel tempo aveva per tre volte rinnovata la sua gioventù, avendo bevuto l'acqua della Fonte Borìca, che si trova appunto in quella terra e prolunga la vita, ma non oltre i trecentoquarant'anni — per cui tra poco sarebbe morto.
905 Ma il loro problema era d'inventare per ciascuno una storia diversa: infatti, se tutti avessero avuto la stessa storia, non si sarebbe più potuto distinguerli tra loro, perché ciascuno di noi è quello che le sue vicende hanno creato.
906 Li fece così giungere a una settima e amenissima spiaggia allietata da un boschetto che sorgeva proprio sulla riva del mare. Lo attraversarono e si trovarono in un giardino reale, dove, lungo un viale alberato che attraversava prati decorati da aiuole, sorgevano molte fontane.
907 Lasciò che i due si abbandonassero, mentre un papavero molle alzava dal grave oblio il capo insonnolito, per abbeverarsi di quei roridi sospiri. Ma poi preferì che, umiliato da tanta bellezza, s'imporporasse di vergogna e di scorno.
908 Per non vedere più quello per cui tanto avrebbe voluto essere visto, allora Roberto, con la sua morfeica omniscienza, salì a dominare l'isola intera, dove ora le fontane commentavano il miracolo amoroso di cui si volevano pronube.
909 V'erano colonnine, ampolle, fiale da cui usciva un solo getto — o molti da molti piccoli ugelli — altre avevano al culmine come un'arca, dalle cui finestre scolava una fiumara, che formava cadendo un salice doppiamente piangente.
910 Una, come un solo fusto cilindrico, generava al sommo tanti cilindri minori volti in diverse direzioni, quasi fosse una casamatta o fortezza o un vascello di linea armato di bocche da fuoco — che però facevano artiglieria d'acque.
911 In un'altra si posava sul capitello un pesce codacciuto che sembrava avesse appena inghiottito Giona, ed emanava acque e dalla bocca e da due fori che gli si aprivano sopra gli occhi. E a cavallo gli stava un amorino munito di tridente.
912 Una fontana in forma di fiore sosteneva col suo schizzo una palla; un'altra ancora era un albero i cui molti fiori facevano ciascuno roteare una sfera, e sembrava che tanti pianeti si muovessero l'uno intorno all'altro nella sfera dell'acqua.
913 A sostituir l'aria con l'acqua ve n'erano a canne d'organo, che non emettevano suoni ma fiati liquefatti, e a sostituir l'acqua col fuoco ve n'erano a candelabro, dove fiammelle accese al centro della colonna di sostegno gettavano luci sulle schiume che riboccavano d'ogni dove.
914 Un'altra sembrava un pavone, un ciuffo sul capo, e un'ampia coda aperta, a cui il cielo forniva i colori. Per non dire di alcune che sembravano sostegni per un acconciatore di parrucche, e si adornavano di capigliature scroscianti.
915 Su una ruotava un cilindro che eiaculava acqua da una serie di scanalature a spirale. Ve n'erano a bocca di leone o di tigre, a fauci di grifone, a lingua di serpente, e persino come femmina che piangeva e dagli occhi e dalle poppe.
916 In questa ebbrezza della ragione si rammaricava che i suoi occhi non potessero spaziare quanto il suo cuore voleva, e tra i coralli cercava, della donna amata, l'armilla, la rete dei capelli, il ciondolo che le inteneriva il lobo dell'orecchio, le collane sontuose che ornavano il suo collo di cigno.
917 Troppo tardi: la mano si era posata sulla Cosa e un dolore intenso gli aveva attraversato il braccio sino alla spalla. Con un colpo di reni era miracolosamente riuscito a non finire e col viso e col petto sopra il Mostro, ma per arrestar la sua inerzia aveva dovuto colpirlo con la maschera.
918 Nell'urto essa si era infranta, e in ogni caso aveva dovuto lasciarla. Facendo forza con i piedi sulla roccia sottostante, era tornato in superficie, mentre per pochi secondi aveva ancora visto la Persona Vitrea affondare chissà dove.
919 Ma ora il sole era già alto. Con i denti che battevano, Roberto si ricordò che il dottor Byrd gli aveva raccontato che, dopo l'incontro col Pesce Pietra, i più non si erano salvati, pochi erano sopravvissuti, e nessuno conosceva un antidoto contro quel male.
920 Si risvegliò che la febbre era salita e provava un intenso bisogno di bere. Comprese che su quel lembo della nave, esposto agli elementi, lontano da cibo e bevanda, non poteva durare. Strisciò sino al sottoponte e pervenne al limite tra la stanza delle provviste e il recinto del pollame.
921 Durante una notte agitata da sogni ferali, attribuiva le sue sofferenze a Ferrante, che ora confondeva col Pesce Pietra. Perché voleva impedirgli l'accesso all'Isola e alla Colomba? Era per questo che si era posto al suo inseguimento.
922 Aveva preso la mano di Roberto, sollevandolo con violenza dal suo giaciglio, e lo aveva trascinato per i meandri della Daphne, mentre il malato provava un rodimento d'intestino e nella testa gli pareva di aver tanti orioli da corda.
923 Allo scoglio si avvicinò una nave in cui egli riconobbe la Tweede Daphne; e ne discese Ferrante, che ora liberava il condannato. Tutto era chiaro. Nel corso del suo navigare, Ferrante aveva incontrato — come la leggenda ci assicura che sia — Giuda recluso sull'oceano aperto, a espiare il suo tradimento.
924 Ma i due si aggiravano tra le saette che piovevano loro d'intorno, assalendosi con botte e fianconate, arretrando di colpo, appigliandosi a una fune per evitar quasi volando una stoccata, lanciandosi contumelie, ritmando ogni assalto con un urlo, tra le urla pari del vento che sibilava d'intorno.
925 Con la sua nave aerea si era levato a volo verso la terra ormai raggiungibile. Sotto la Specola Melitense aveva ritrovato lo scapolare, e lo aveva distrutto. Ridato spazio al tempo, aveva visto discendere su di lui la Colomba, che finalmente scopriva estatico in tutta la sua gloria.
926 Ma era naturale — anzi, soprannaturale — che ora gli paresse non arancina ma bianchissima. Non poteva essere una colomba, perché a quell'uccello non si addice di rappresentare la Seconda Persona, era forse un Pio Pellicano, come dev'essere il Figlio.
927 Solo sapeva che stava volando verso l'alto, e le immagini si susseguivano come volevano i fantasmi mattaccini. Stavano ora navigando alla volta di tutti gli innumerevoli e infiniti mondi, in ogni pianeta, in ogni stella, in modo che su ciascuno, quasi in un sol momento, si compisse la Redenzione.
928 Non avremo, confido, cercato coerenza e verisimiglianza in tutto quanto ho riportato sinora, perché si trattava dell'incubo di un sofferente attossicato da un Pesce Pietra. Ma quanto mi appresto a riferire supera ogni nostra aspettativa.
929 Quel momento, si diceva, mi costerà davvero l'inferno, perché non sono certo migliore né di Giuda né di Ferrante — anzi io non sono altro che Ferrante, e altro non ho fatto sinora che approfittare della sua malvagità per sognare di aver fatto quel che la mia viltà mi ha sempre impedito di fare.
930 Perché non ho mai pensato alla morte, e all'ira di un Dio ridente? Perché seguivo gli insegnamenti dei miei filosofi, per cui la morte era una naturale necessità, e Dio era colui che nel disordine degli atomi ha introdotto la Legge che li compone nell'armonia del Cosmo.
931 Dava allora il benvenuto a quegli araldi della disgregazione comprendendo che quel confondersi nella materia viscida doveva esser vissuto come la fine di ogni soffrire, in armonia con la volontà della Natura e del Cielo che la ammministra.
932 Dovrò attendere per poco, mormorava come in una preghiera. Nel giro di non molti giorni il mio corpo, ora ancora ben composto, mutatosi di colore diventerà smorto come un cece, quindi esso annerirà tutto da capo a piedi e lo rivestirà un calore fosco.
933 Indi comincerà a tumefarsi, e su quel rigonfiamento nascerà una fetida muffa. Né molto andrà che il ventre inizierà a dare qua uno scoppio e là una rottura — dalle quali ne sboccherà fuori un marciume, e qui si vedrà ondeggiare un mezzo occhio inverminito, là uno squarcio di labbro.
934 Ecco, alla Griva non si facevano discorsi che coinvolgessero morte, giudizio, inferno o paradiso. La morte, a Roberto, era apparsa a Casale, ed era stato in Provenza e a Parigi che era stato indotto a riflettervi, tra discorsi virtuosi e discorsi scapestrati.
935 Morirò certamente, si diceva ora, se non adesso per il Pesce Pietra, almeno più tardi, visto che è chiaro che da questa nave non uscirò più, ora che ho perduto — con la Persona Vitrea — persino il modo di avvicinarmi senza danno al barbacane.
936 D'altra parte, per quanto tempo non sono stato, e per quanto non sarò più! Occupo uno spazio ben piccolo nell'abisso degli anni. Questo piccolo intervallo non riesce a distinguermi dal niente in cui dovrò andare. Non sono venuto al mondo che per far numero.
937 La mia parte è stata così piccola che, anche se fossi rimasto dietro alle quinte, tutti avrebbero detto lo stesso che la commedia era perfetta. E come in una tempesta: gli uni annegano subito, altri si spezzano contro uno scoglio, altri rimangono su un legno abbandonato, ma non per molto anch'essi.
938 Non è una gran sapienza saper queste cose, si diceva Roberto, d'accordo. Dovremmo saperle dal momento che siamo nati. Ma di solito riflettiamo sempre e soltanto sulla morte degli altri. Eh sì, tutti abbiamo abbastanza forza per sopportare i mali altrui.
939 Si mise a pensare alla propria nascita, di cui sapeva meno ancora che della propria morte. Si disse che pensare alle origini è proprio del filosofo. È facile per il filosofo giustificare la morte: che si debba precipitar nelle tenebre è una delle cose più chiare del mondo.
940 Ciò che assilla il filosofo non è la naturalezza della fine, è il mistero dell'inizio. Possiamo disinteressarci dell'eternità che ci seguirà, ma non possiamo sottrarci all'angosciosa domanda su quale eternità ci abbia preceduti: l'eternità della materia o l'eternità di Dio.
941 Ecco perché era stato gettato sulla Daphne, si disse Roberto. Perché solo in quel riposevole romitorio avrebbe avuto agio di riflettere sull'unica domanda che ci libera da ogni apprensione per il non essere, consegnandoci allo stupore dell'essere.
942 Ma quanto era restato malato? Giorni, settimane? Oppure nel frattempo una tempesta si era abbattuta sulla nave? O. prima ancora di incontrare il Pesce Pietra, preso dal mare o dal suo Romanzo, non si era reso conto di quanto stava accadendo intorno a lui.
943 La Daphne era diventata un'altra nave. Il ponte era sporco e i barili lasciavano colare l'acqua andando a catafascio; alcune vele si erano sciolte e si sfilacciavano, pendendo dagli alberi come maschere che occhieggiassero o sogghignassero attraverso i loro buchi.
944 Gli uccelli si lamentavano, e Roberto corse subito ad accudirli. Alcuni erano morti. Per fortuna le piante, alimentate dalla pioggia e dall'aria, erano cresciute e certune si erano insinuate nelle gabbie, fornendo pastura ai più, e per gli altri si erano moltiplicati gli insetti.
945 Tante vicende, si diceva Roberto, per scoprirmi uno zero. Anzi, più azzerato di quanto fossi al mio arrivo di derelitto. Il naufragio mi aveva scosso e indotto a combattere per la vita, ora non ho nulla per cui combattere e contro cui battere.
946 La figura peregrina ridiede lena ai pensieri di quel naufrago educato a scoprir nuove terre soltanto attraverso il cannocchiale della parola. Se il corallo era cosa viva, si disse, era l'unico essere veramente pensante in tanto disordine d'ogni altro pensiero.
947 Roberto rifletteva. Ammettiamo che ogni corpo sia composto di atomi, anche i corpi puramente e solamente estesi di cui ci parlano i Geometri, e che questi atomi siano indivisibili. E certo che ogni retta si può dividere in due parti eguali, qualsiasi sia la sua lunghezza.
948 Ma se la sua lunghezza è irrilevante, è possibile che si debba dividere in due parti una retta composta da un numero dispari d'indivisibili. Questo vorrebbe dire, se non si vuole che le due parti risultino diseguali, che è stato diviso in due l'indivisibile mediano.
949 Non esiste un corpo solido così compatto come l'oro, eppure prendiamo un'oncia di questo metallo, e da quell'oncia un battiloro ricaverà mille lamine, e la metà di quelle lamine sarà sufficiente per dorare l'intera superficie di un lingotto d'argento.
950 E dalla stessa oncia d'oro coloro che preparano i fili d'oro e d'argento per la passamaneria, con le loro filiere riusciranno a ridurlo allo spessore di un capello e quel filino sarà lungo quanto un quarto di lega e forse più.
951 Si spogliò nudo, si coricò, con gli occhi chiusi, e con le dita nelle orecchie, per non essere disturbato da alcun rumore, come certamente accade a una pietra, che non ha organi di senso. Cercò di annullare ogni proprio ricordo, ogni esigenza del suo corpo umano.
952 Che cosa sentirei se fossi davvero una pietra? Anzitutto il movimento degli atomi che mi compongono, ovvero lo stabile vibrare delle posizioni che le parti delle mie parti delle mie parti intrattengono tra loro. Sentirei il ronzare del mio pietrare.
953 Ma non potrei dire io, perché per dire io bisogna pure che ci siano degli altri, qualcosa d'altro a cui oppormi. In principio la pietra non può sapere che ci sia altro fuori di sé. Ronza, pietra se stessa pietrante, e ignora il resto.
954 Tuttavia, se tocco questo corallo, sento che la superficie ha ritenuto il calore del sole sulla parte esposta, mentre la parte che poggiava sul ponte è più fredda; e se lo spaccassi a metà sentirei forse che il calore decresce dal sommo alla base.
955 Chissà, si chiedeva, se in questi moti la pietra non inizi ad avere, se non il concetto di luogo, almeno quello di parte: certamente, in ogni caso, quello di mutazione. Non di passione, però, perché non conosce il suo opposto, che è l'azione.
956 O forse sì. Perché che essa sia pietra, così composta, lo sente sempre, mentre che sia or calda qui or fredda là lo sente in modo alterno. Dunque in qualche modo è capace di distinguere se stessa, come sostanza dai propri accidenti.
957 O no: perché se sente se stessa come rapporto, sentirebbe se stessa come rapporto tra accidenti diversi. Si sentirebbe come sostanza in divenire. E che vuol dire? Mi sento io in modo diverso? Chissà se le pietre pensano come Aristotele o come il Canonico.
958 Aver memoria significa aver nozione del prima e del dopo, altrimenti anch'io crederei sempre che la pena o la gioia di cui mi ricordo siano presenti nell'istante che le ricordo. Invece so che sono percezioni passate perché sono più deboli di quelle presenti.
959 Il problema è dunque aver il sentimento del tempo. Il che forse neppure io potrei avere, se il tempo fosse qualcosa che si impara. Ma non mi dicevo giorni, o mesi fa, prima della malattia, che il tempo è la condizione del movimento, e non il risultato.
960 Se le parti della pietra sono in moto, questo moto avrà un ritmo che, anche se inaudibile, sarà come il rumore di un orologio. La pietra, sarebbe l'orologio di se stessa. Sentirsi in moto significa sentire il proprio tempo che batte.
961 Ma il giorno che quel muro crollasse, cessata la costrizione, avvertirebbe la pietra il sentimento della Libertà come lo avvertirei io, se mi decidessi a uscire dalla costrizione che mi sono imposto? Salvo che io posso voler cessare dall'essere in questo stato, la pietra no.
962 Ma posso io davvero volere? In questo momento io provo il piacere d'essere pietra, il sole mi scalda, il vento mi rende accettabile questa concozione del mio corpo, non ho nessuna intenzione di cessar d'esser pietra. Perché? Perché mi piace.
963 Non c'è pensiero più tremendo, specie per un filosofo, di quello del libero arbitrio. Per pusillanimità filosofica, Roberto lo scacciò come un pensiero troppo grave — per lui, certo, e a maggior ragione per una pietra, a cui aveva già donato le passioni ma aveva tolto ogni possibilità d'azione.
964 Roberto si chiedeva ora piuttosto se nel momento in cui cadeva nel vulcano, la pietra avesse coscienza della propria morte. Certamente no, perché non aveva mai saputo che cosa volesse dire morire. Ma quando era del tutto scomparsa nel magma, poteva aver nozione della sua morte avvenuta.
965 Mio Dio, potrei godere dell'anima, e ne potrebbero godere persino le pietre, e proprio dall'anima delle pietre apprendo che la mia anima non sopravviverà al mio corpo. Che sto a pensare, e a giocar a far la pietra, se poi non saprò più nulla di me.
966 Ma in fin dei conti, che cosa è mai quest'io che io credo che pensi me? Non ho detto che non sia altro che la coscienza che il vuoto, identico all'estensione, ha di sé in questo particolare composto? Dunque non sono io che penso, ma sono il vuoto, o l'estensione, che pensano me.
967 E allora questo composto è un accidente, in cui il vuoto e l'estensione si sono attardati per un batter d'ali, per poter poi tornare a pensarsi altrimenti. In questo grande vuoto del vuoto, l'unica cosa che veramente c'è, è la vicenda di questo divenire in innumerevoli composti transitori.
968 Regolata da una maestosa necessità, che la porta a creare e distruggere mondi, a intessere le nostre pallide vite. Se quella accetto, se questa Necessità riesco ad amare, tornare a essa, e piegarmi ai suoi futuri voleri, questo è la condizione della Felicità.
969 Se questo riuscissi davvero a comprendere, sarei davvero l'unico uomo che ha trovato la Vera Filosofia, e saprei tutto del Dio che si nasconde. Ma chi avrebbe animo di andare per il mondo e proclamare questa filosofia? Questo è il segreto che io porterò con me nella tomba degli Antipodi.
970 L'ho già detto, Roberto non aveva la tempra del filosofo. Arrivato a questa Epifania, che si era molata con la severità con cui l'ottico polisce la sua lente, ebbe — e di nuovo — un'apostasia amorosa. Poiché le pietre non amano.
971 Ma allora, si disse, se è nel gran mare della grande e unica sostanza che dovremo tutti tornare, laggiù, o lassù, o in qualsiasi dove essa sia, io mi ricongiungerò identico alla Signora! Saremo entrambi parte e tutto dello stesso macrocosmo.
972 Forse è questo, lo scrivere Romanzi: vivere attraverso i propri personaggi, far sì che questi vivano nel nostro mondo, e consegnare se stessi e le proprie creature al pensiero di coloro che verranno, anche quando noi non potremo più dire io.
973 Roberto si raccontò che, vagando di isola in isola, e cercando più il suo piacere che la giusta rotta, Ferrante, incapace di trarre avvisi dai segnali che l'eunuco olandese mandava alla ferita di Biscarat, avesse alfine perduto ogni nozione di dove si trovasse.
974 La nave pertanto andava, i pochi viveri si erano guastati, l'acqua impuzzoliva. Affinché la ciurma non se ne avvedesse, Ferrante obbligava ciascuno a scendere solo una volta al giorno nella stiva e prendere allo scuro il poco necessario a sopravvivere, e che nessuno avrebbe sofferto di guardare.
975 Né avevano più voglia di farlo, avendo dato man forte al loro capo, ora si volevano suoi pari. Uno dei cinque aveva spiato quel misterioso gentiluomo, che saliva così raramente sul ponte, e aveva scoperto che si trattava di una donna.
976 Allora quegli ultimi scherani avevano affrontato Ferrante chiedendogli la passeggera. Ferrante, Adone nell'aspetto, ma Vulcano nell'anima, teneva più a Plutone che a Venere, e fu fortuna che Lilia non l'udisse mentre sussurrava agli ammutinati che sarebbe sceso a patti con loro.
977 Dapprima la tempesta opponeva nubi a nubi, acque ad acque, venti a venti. Ma ben presto il mare era uscito dai suoi prescritti confini e cresceva inturgidendo verso il cielo, scendeva rovinosa la pioggia, l'acqua si mesceva con l'aria, l'uccello imparava il nuoto, e il volo il pesce.
978 Ferrante dunque trascina Lilia sul ponte, e che fa? L'esperienza insegnava a Roberto che avrebbe dovuto legarla solidamente a una tavola, lasciandola scivolare nel mare e confidando che neppure le fiere dell'Abisso avrebbero negato pietà a tanta bellezza.
979 Biscarat che per tutto il viaggio era rimasto, come il cane dell'Amarilli, a soffrire in ceppi mentre ogni giorno gli veniva riaperta quella ferita che poi gli veniva per poco curata — Biscarat, che aveva trascorso quei mesi con un unico pensiero: vendicarsi di Ferrante.
980 Roberto non riuscì a immaginare i sentimenti di Lilia a quella vista, e sperò che non avesse visto nulla. Siccome non ricordava che cosa fosse accaduto a lui dal momento in cui era stato preso dal mulinello, neppure riusciva a immaginare che cosa potesse essere accaduto a lei.
981 Uomini, o esseri comunque umani, erano all'aspetto da lontano ma — come Ferrante li ebbe raggiunti — vide che, se uomini erano stati, ora piuttosto erano divenuti — o erano sulla via di divenire — strumenti per un anfiteatro d'anatomia.
982 Ve ne erano alcuni a cui quasi tutto era stato sottratto, e parevano sculture di soli nervi; e sul tronco del collo, ormai acefalo, sventolavano quelli che un tempo erano abbarbicati a un cervello. Le gambe parevano un intreccio di vimini.
983 Ve n'erano altri che, con l'addomine aperto, lasciavano palpitare intestini color colchico, come mesti ghiottoni ingozzati di trippe mal digerite. Là dove avevano avuto un pene, ormai sbucciato e ridotto a un picciuolo, si agitavano solo i testicoli rinsecchiti.
984 Roberto aveva seguitato a costruire la fine di Ferrante, sempre stando sul ponte, nudo come si era messo per diventare pietra, e nel frattempo il sole lo aveva ustionato sul volto, il petto e le gambe, riportandolo a quel calor febbrile al quale era sfuggito da non molto.
985 Ormai disposto a confondere non solo il romanzo con la realtà, ma anche l'ardore dell'animo con quello del corpo, si era sentito riavvampare d'amore. E Lilia? Che cosa era accaduto a Lilia mentre il cadavere di Ferrante andava a raggiungere l'isola dei morti.
986 Sperava che poco lontano scaturissero agili ruscelli da rupi ombrose, ma questi sogni non le molcevano, bensì le rinfocolavano la sete. Voleva chiedere aiuto al Cielo, ma restando annodata al palato l'arida lingua, le voci diventavano mozzi sospiri.
987 Se avesse anche raggiunto una gora, un corso d'acqua viva, appressandovi le labbra avrebbe scorto gli occhi suoi, già due vive stelle che promettevano vita, ora fatti due spaventevoli eclissi e quel volto, ove gli Amoretti scherzando facevano soggiorno, ora orrido albergo dell'aborrimento.
988 Così almeno Roberto faceva che Lilia pensasse di sé. Ma ne provò fastidio. Fastidio di lei che, vicina a morire, si angosciava per la propria bellezza, come spesso volevano i Romanzi; fastidio di se stesso, che non sapeva guardare nel volto, senza iperboli della mente, l'amor suo che moriva.
989 Per le sofferenze del lungo viaggio e del naufragio, i suoi capelli potevano esser diventati di stoppa, segnata da fili bianchi; il suo seno aveva certo perduto i suoi gigli, il suo viso era stato arato dal tempo. Crespi erano ora la gola e il petto.
990 Eppure, questo frutto appassito, egli non l'avrebbe scambiato per tutti gli angeli del cielo. Egli l'amava anche così, né che fosse diversa poteva sapere quando l'aveva amata volendola com'era, dietro il sipario del suo velo nero, una sera lontana.
991 Si era lasciato frastornare dal suo ondisonante esilio, cercando sempre un altro se stesso: pessimo in Ferrante, ottimo in Lilia, della cui gloria voleva farsi glorioso. E invece amare Lilia significava volerla come lui stesso era, consegnati entrambi al lavorio del tempo.
992 Era questo il modo di terminare un Romanzo? I Romanzi non solo pungolano l'odio per farci infine godere della sconfitta di coloro che odiamo, ma invitano altresì alla compassione per poi condurci a scoprire fuor di pericolo coloro che amiamo.
993 E quale più grande emozione, per quella morente, che ritrovare in vita la persona amata! Infatti non dovrei neppure rivelarle di essere diverso da quello che amava, perché era a me e non all'altro che essa si era donata; prenderei semplicemente il posto che mi era dovuto sin dall'inizio.
994 Possibile, chiunque si chiederebbe, che Roberto non avesse riflettuto al fatto che questa riscossa gli era concessa solo se davvero egli avesse toccato l'Isola entro quel giorno, al massimo entro le prime ore del mattino seguente, cosa che le sue esperienze recentissime non rendevano probabile.
995 Ma Roberto, lo abbiamo già visto, dopo aver iniziato a pensare a un Paese dei Romanzi del tutto estraneo al proprio mondo, finalmente era arrivato a far confluire i due universi l'uno nell'altro senza fatica, e ne aveva confuso le leggi.
996 È vero, la scommessa non era alla pari. C'erano più possibilità di perire nel tentativo che non di raggiunger la terra. Ma anche in quel caso l'alea era vantaggiosa: come se gli avessero detto che aveva mille possibilità di perdere una misera somma contro una sola di guadagnare un immenso tesoro.
997 Infine era stato colto da un'altra idea, che gli riduceva oltre misura il rischio di quella giocata, anzi, lo vedeva vincente in entrambi i casi. Si ammettesse pure che la corrente lo avesse trascinato nella direzione opposta.
998 Se si fosse lasciato andare a fior d'acqua, con gli occhi al cielo, egli non avrebbe mai più visto muovere il sole: avrebbe fluttuato su quel ciglio che separava l'oggi dal giorno prima, al di fuori del tempo, in un eterno mezzogiorno.
999 Fermandosi il tempo per lui, si sarebbe fermato anche sull'Isola, ritardando all'infinito la morte di lei, perché ormai tutto quello che accadeva a Lilia dipendeva dalla sua volontà di narratore. In sospeso lui, in sospeso la vicenda sull'Isola.
1000 Si sarebbe fermato un giorno? Da quel che ricordava delle carte, nessuna altra terra, che non fosse l'Isola di Salomone, poteva distendersi su quella longitudine, almeno sino a che essa, al Polo, non si fosse congiunta a tutte le altre.
1001 Così nel corso dei giorni si sarebbero uniti in quell'intesa. Istante per istante sarebbero stati davvero l'uno all'altro come i rigidi gemelli del compasso, muovendo ciascuno al moto del compagno, piegando l'uno quando l'altro si spinge più lontano, tornando diritto quando l'altro si ricongiunge.
1002 Allora entrambi avrebbero continuato il loro viaggio nel presente, dritti verso l'astro che li attendeva, pulviscolo d'atomi tra gli altri corpuscoli del cosmo, vortice tra i vortici, ormai eterni come il mondo perché ricamati di vuoto.
1003 Dunque la puntata gli avrebbe dato in ogni caso una vittoria. Non si doveva esitare. Ma neppure disporsi a quel trionfale sacrificio senza corredo di giusti riti. Roberto affida alle sue carte gli ultimi atti che si accinge a compiere, e per il resto ci lascia indovinare gesti, tempi, cadenze.
1004 Sino a che, risalito sul ponte, vide il popoloso stormo alzarsi attraverso l'alberatura, e gli parve che per alcuni secondi il sole fosse coperto da tutti i colori dell'iride, sbiavati di traverso dagli uccelli del mare, accorsi curiosi a unirsi a quella festa.
1005 Aveva puntato i piedi contro il legno, dandosi un colpo in avanti per scostarsi dalla Daphne, e dopo averne seguito la fiancata sino a poppa, se ne era allontanato per sempre, verso una delle due felicità che certamente lo attendeva.
1006 Immaginiamoci i geografi olandesi a sfogliare quelle carte. Noi lo sappiamo, non c'era nulla d'interessante da trovarvi, tranne forse il metodo canino del dottor Byrd, del quale scommetto che vari spioni erano già venuti a sapere per altre strade.
1007 Quell'uomo eccezionale, qualsiasi siano stati i suoi difetti caratteriali, riesce a percorrere più di seimila chilometri per approdare finalmente a Timor. Nel compiere questa impresa, passa per l'arcipelago delle Figi, raggiunge quasi Vanua Levu e attraversa il gruppo delle Yasawa.
1008 Ora un uomo come Bligh, se avesse trovato la Daphne appena in stato ragionevole, poiché era arrivato sin lì su di una semplice barca, avrebbe fatto il possibile per rimetterla in sesto. Ma era ormai passato quasi un secolo e mezzo.
1009 Non so se Bligh avesse letto le rivendicazioni del signor Buache, ma certamente nella marineria inglese si parlava con stizza di quel tratto di arroganza dei cugini francesi, che millantavano di aver trovato l'introvabile. I francesi avevano ragione, ma Bligh poteva non saperlo, o non desiderarlo.
1010 Che, se dovessi trarne una conclusione, dovrei andare a ripescare tra le carte di Roberto una nota, che risale certamente a quelle notti in cui ancora si interrogava su un possibile Intruso. Quella sera Roberto guardava ancora una volta il cielo.
1011 A Casale, al centro di una pianura, aveva capito che il cielo era più vasto di quello che egli credeva, ma padre Emanuele lo convinceva più a immaginare le stelle descritte per concetti, che a guardare quelle che gli stavano sopra il capo.
1012 E allora la storia di Roberto de la Grive sarebbe solo quella di un innamorato infelice, condannato a vivere sotto un cielo esagerato, che non è riuscito a conciliarsi con l'idea che la terra vaghi lungo un'ellisse di cui il sole è soltanto uno dei fuochi.
1013 Infine, se da questa storia volessi farne uscire un romanzo, dimostrerei ancora una volta che non si può scrivere se non facendo palinsesto di un manoscritto ritrovato — senza mai riuscire a sottrarsi all'Angoscia dell'Influenza.
1014 Né sfuggirei alla puerile curiosità del lettore, il quale vorrebbe poi sapere se davvero Roberto ha scritto le pagine su cui mi sono intrattenuto sin troppo. Onestamente, dovrei rispondergli che non è impossibile che le abbia scritte qualcun altro, che voleva solo far finta di raccontar la verità.
1015 Abbiamo diversi e curiosi Orologi, e altri che sviluppano Moti Alternativi... E abbiam pure Case degli inganni dei Sensi, dove realizziamo con successo ogni genere di Manipolazione, False Apparizioni, Imposture e Illusioni... Queste sono, o figlio mio, le ricchezze della Casa di Salomone.
1016 Avevo riacquistato il controllo dei nervi e dell'immaginazione. Dovevo giocare con ironia, come avevo giocato sino a pochi giorni prima, senza farmi coinvolgere. Ero in un museo e dovevo essere drammaticamente astuto e lucido.
1017 Guardai con confidenza gli aerei sopra di me: avrei potuto inerpicarmi nella carlinga di un biplano e attendere la notte come se stessi sorvolando la Manica, pregustando la Legion d'Onore. I nomi delle automobili a terra mi suonarono affettuosamente nostalgici.
1018 Non so se l'altra sera feci bene a restare. Altrimenti oggi saprei l'inizio ma non la fine della storia. Oppure non sarei qui, come ora sono, isolato su questa collina mentre i cani abbaiano lontano laggiù a valle, a chiedermi se quella era stata davvero la fine, o se la fine debba ancora venire.
1019 Maschera in cuoio per protezione nelle esperienze di calcinazione. Ma davvero? Davvero il signore delle candele sotto la campana si metteva quella bautta da topo di chiavica, quella parure da invasore ultraterreno, per non irritarsi gli occhi.
1020 E infatti notai che nell'angolo destro, contro una finestra, stava la garitta del Periscope. Entrai. Mi trovai davanti a una lastra vitrea, come una plancia di comando, su cui vedevo muoversi le immagini di un film, molto sfocate, uno spaccato di città.
1021 La prudenza voleva che restassi in piedi, e se i piedi mi dolevano, accovacciato, almeno per due ore. L'ora di chiusura per i visitatori non coincide con quella di uscita degli impiegati. Mi colse il terrore delle pulizie: e se ora avessero incominciato a ripulire tutte le sale, palmo per palmo.
1022 In quel momento un gruppo di giovani usciva dalla Rotonde. Una ragazza passava in rue Conté, girando in rue Montgolfier. Non era una zona molto frequentata, avrei resistito ore ed ore guardando il mondo insipido che avevo dietro le spalle.
1023 Quante cose ti vengono in mente quando sei solo e clandestino in un periscopio. Deve essere la sensazione di chi si nasconde nella stiva di una nave per emigrare lontano. Infatti la meta finale sarebbe stata la statua della Libertà, con il diorama di New York.
1024 La più temibile sarebbe stata una crisi di angoscia: quando hai la certezza che tra un istante griderai. Periscopio, sommergibile, bloccato sul fondo, forse intorno già ti navigano grandi pesci neri degli abissi, e non li vedi, e tu sai solo che ti sta mancando l'aria.
1025 Respirai profondamente più volte. Concentrazione. L'unica cosa che in quei momenti non ti tradisce è la lista della lavandaia. Riandare ai fatti, elencarli, individuarne le cause, gli effetti. Sono arrivato a questo punto per questo, e per quest'altro motivo.
1026 Sopravvennero i ricordi, nitidi, precisi, ordinati. I ricordi degli ultimi frenetici tre giorni, poi degli ultimi due anni, confusi con i ricordi di quarant'anni prima, come li avevo ritrovati violando il cervello elettronico di Jacopo Belbo.
1027 Era stato due giorni prima. Quel giovedì poltrivo a letto senza decidermi ad alzarmi. Ero arrivato il pomeriggio precedente e avevo telefonato in casa editrice. Diotallevi era sempre all'ospedale, e Gudrun era stata pessimista: sempre uguale, cioè sempre peggio.
1028 Un colpo secco, come uno sparo. Doveva essere íl microfono che era caduto e aveva battuto contro il muro, o contro quelle tavolette che ci sono sotto il telefono. Un tramestio. Poi il clic del microfono riappeso. Non certo da Belbo.
1029 Odore di chiuso, di mozziconi rancidi, i portacenere erano colmi dappertutto, il lavello in cucina pieno di piatti sporchi, la pattumiera ingombra di scatolette sventrate. Su di un ripiano in studio, tre bottiglie di whisky vuote, la quarta conteneva ancora due dita di alcool.
1030 C'erano alcune cartelle. Cercai qualcosa di interessante, ma erano solo tabulati, preventivi editoriali. In mezzo a quei documenti trovai però lo stampato di un file che, a giudicare dalla data, doveva risalire ai primi esperimenti col word processor.
1031 Oh gioia, oh vertigine della differanza, o mio lettore-scrittore ideale affetto da un'ideale insomnia, oh veglia di finnegan, oh animale grazioso e benigno. Non aiuta te a pensare ma aiuta te a pensare per lui. Una macchina totalmente spirituale.
1032 Se scrivi con la penna d'oca devi grattare le sudate carte e intingere ad ogni istante, i pensieri si sovrappongono e il polso non tien dietro, se batti a macchina si accavallano le lettere, non puoi procedere alla velocità delle tue sinapsi ma solo coi ritmi goffi della meccanica.
1033 Non andrò mai più per baretti a disintegrare navicelle aliene con proiettili traccianti sino a che il mostro non disintegra te. Qui è più bello, disintegri pensieri. E una galassia di migliaia e migliaia di asteroidi, tutti in fila, bianchi o verdi, e li crei tu.
1034 Non c'era altro, allo scoperto. Dovevo cercarlo nei dischetti del word processor. Erano ordinati per numero, e pensai che tanto valeva provare col primo. Ma Belbo aveva menzionato la parola d'ordine. Era sempre stato geloso dei segreti di Abulafia.
1035 O forse no: un termine connesso alla Tradizione sarebbe potuto venire in mente anche a Loro. Per un momento pensai che forse Essi erano entrati nell'appartamento, avevano fatto una copia dei dischetti, e in quell'istante stavano provando tutte le combinazioni possibili in qualche luogo remoto.
1036 Che sciocchezza, mi dissi, quella non era gente da calcolatore, avrebbero proceduto col Notaríkon, con la Gématria, con la Temurah, trattando i dischetti come la Torah. E ci avrebbero messo tanto tempo quanto ne era passato dalla stesura del Sefer Jesirah.
1037 A scarico di coscienza provai coi dieci sefirot: Keter, Hokmah, Binah, Hesed, Geburah, Tiferet, Nezah, Hod, Jesod, Malkut, e ci misi anche la Shekinah per soprammercato... Non funzionava, naturale, era la prima idea che sarebbe potuta venire in mente a chiunque.
1038 Tuttavia la parola doveva essere qualcosa di ovvio, che viene in mente quasi per forza di cose, perché quando lavori su di un testo, e in modo ossessivo, come aveva dovuto lavorare Belbo negli ultimi giorni, non ti puoi sottrarre all'universo di discorso in cui vivi.
1039 Presi l'ultimo sorso di whisky, chiusi gli occhi, li riaprii. Davanti a me la stampa secentesca. Era una tipica allegoria rosacrociana di quel periodo, così ricco di messaggi in codice, alla ricerca dei membri della Fraternità.
1040 Le bizzarrie non finivano qui, perché da altre due finestre tonde della torre spuntavano, a sinistra, un braccio enorme, sproporzionato rispetto alle altre figure, che reggeva una spada, come se appartenesse all'essere alato rinchiuso nella torre, e a destra una grande tromba.
1041 Mi colpì all'improvviso il nembo centrale, sede divina. Erano molto evidenti le lettere ebraiche, si potevano vedere anche dalla sedia. Ma Belbo non poteva scrivere su Abulafia lettere ebraiche. Guardai meglio: le conoscevo, certo, da destra a sinistra, jod, he, waw, het.
1042 Sapevo perché Diotallevi diffidava di Abulafia. Aveva sentito dire che ci si poteva alterare l'ordine delle lettere, così che un testo avrebbe potuto generare il proprio contrario e promettere oscuri vaticini. Belbo tentava di spiegargli.
1043 Avrei voluto morire. Eppure ormai io ero Jacopo Belbo e Jacopo Belbo doveva aver pensato come stavo pensando io. Dovevo aver commesso un errore, uno stupidissimo errore, un errore da nulla. Ero a un passo dalla soluzione, forse Belbo, per ragioni che mi sfuggivano, aveva contato dal fondo.
1044 No, non ai migliori scienziati. A tutti. Non avevamo osservato proprio un mese prima che negli ultimi tempi erano usciti almeno tre romanzi in cui il protagonista cercava nel computer il nome di Dio? Belbo non sarebbe stato così banale.
1045 Ero così eccitato per la vittoria che non mi chiesi neppure perché Belbo avesse scelto proprio quella parola. Ora lo so, e so che lui, in un momento di chiarezza, aveva capito quello che io capisco ora. Ma giovedì pensai solo che avevo vinto.
1046 Mi misi a ballare, a battere le mani, a cantare una canzone da caserma. Poi mi fermai e andai in bagno a lavarmi la faccia. Tornai e misi in stampa per primo l'ultimo file, quello scritto da Belbo prima della sua fuga a Parigi.
1047 Ormai era notte, la notte del ventuno giugnò. Mi lacrimavano gli occhi. Dal mattino stavo a fissare quello schermo e il formicaio puntiforme prodotto dalla stampante. Vero o falso che fosse quello che avevo letto, Belbo aveva detto che avrebbe telefonato la mattina seguente.
1048 Tornai alla macchina e incominciai a stampare gli altri dischi, in ordine cronologico. Trovai giochi, esercizi, resoconti di eventi di cui sapevo ma, rifratti dalla visione privata di Belbo, anche quegli eventi mi apparivano ora in una luce diversa.
1049 E soprattutto trovai un intero file che raccoglieva solo citazioni. Tratte dalle letture più recenti di Belbo, le riconoscevo a prima vista, quanti testi analoghi avevamo letto in quei mesi... Erano numerate: centoventi. Il numero non era casuale, oppure la coincidenza era inquietante.
1050 Ora non posso rileggere i testi di Belbo, e la storia intera che mi riportano alla mente, se non alla luce di quel file. Sgrano quegli excerpta come grani di un rosario eretico, e pur mi accorgo che alcuni di essi avrebbero potuto costituire, per Belbo, un allarme, una traccia di salvezza.
1051 La luna sale lentamente all'orizzonte oltre il Bricco. La grande casa è abitata da strani fruscii, forse tarli, topi, o il fantasma di Adelino Canepa... Non oso percorrere il corridoio, sto nello studio di zio Carlo, e guardo dalla finestra.
1052 Credo che si diventi quel che nostro padre ci ha insegnato nei tempi morti, mentre non si preoccupava di educarci. Ci si forma su scarti di saggezza. Avevo dieci anni e volevo che i miei mi abbonassero a un certo settimanale che pubblicava a fumetti i capolavori della letteratura.
1053 Che cosa davvero pensavo quindici anni fa? Conscio di non credere, mi sentivo colpevole fra tanti che credevano. Siccome sentivo che erano nel giusto, mi decisi di credere così come si prende un'aspirina. Male non fa, e si diventa migliori.
1054 Siccome mi era accaduto talora, nei cortei, di accodarmi sotto l'uno o l'altro striscione per seguire una ragazza che turbava la mia immaginazione, ne trassi la conclusione che per molti dei miei compagni la militanza politica fosse un'esperienza sessuale – e il sesso era una passione.
1055 Deve dipendere da un rapporto tra la sete di potere e l'impotentia coeundi. Mari mi era simpatico perché ero sicuro che con la sua Jenny facesse all'amore con gaiezza. Lo si sente dal respiro pacato della sua prosa, e dal suo humour.
1056 Una volta, invece, nei corridoi dell'università, dissi che ad andare sempre a letto con la Krupskaja si finiva poi con lo scrivere un libraccio come Materialismo ed empiriocriticismo. Rischiai di essere sprangato e dissero che ero un fascista.
1057 Rievoco gli umori di allora solo per ricostruire con quale animo mi avvicinai alla Garamond e simpatizzai con Jacopo Belbo. Vi arrivai con lospirito di chi affronta i discorsi sulla verità per prepararsi a correggerne le bozze.
1058 Così potevo spendere la mattinata da basso a discutere della scienza proletaria e i pomeriggi di sopra a praticare un sapere aristocratico. Vivevo amio agio in questi due universi paralleli e non mi sentivo affatto in contraddizione.
1059 Un minimo di eccitazione alcolica era di rigore e il vecchio Pilade, mantenendo i suoi bottiglioni di bianco per i tranvieri e i clienti più aristocratici, aveva sostituito la spuma e il Ramazzotti con frizzantini DOC per gli intellettuali democratici, e Johnny Walker per i rivoluzionari.
1060 A me una pallina durava pochissimo e all'inizio credevo che fosse per distrazione, o per scarsa agilità manuale. Capii poi la verità anni dopo, vedendo giocare Lorenza Pellegrini. All'inizio non l'avevo notata, ma la misi a fuoco una sera seguendo lo sguardo di Belbo.
1061 Ma non era solo lo sguardo. Con un gesto, con una sola interiezione Belbo aveva il potere di collocarti altrove. Voglio dire, poniamo che tu ti affannassi a dimostrare che Kant aveva davvero compiuto la rivoluzione copernicana della filosofia moderna e giocassi il tuo destino su quell'affermazione.
1062 Questi suoi interventi avevano la capacità di farti percepire la vanità del tutto, e io ne ero affascinato. Ma ne traevo una lezione errata, perché li eleggevo a modello di supremo disprezzo per la banalità delle verità altrui.
1063 Solo ora, dopo che ho violato, con i segreti di Abulafia, anche l'animo di Belbo, so che quella che a me pareva disincanto, e che io stavo elevando a principio dí vita, per lui era una forma della melanconia. Quel suo depresso libertinismo intellettuale celava una disperata sete di assoluto.
1064 Bozzetto: la sera stessa la mamma che sta cospargendo di borotalco le carni rosa di mia sorella, io che chiedo quando le spunta finalmente il pisto lino, la mamma che rivela che alle bambine il pistolino non spunta, e rimar gono così.
1065 Ma dicevo del mio primo incontro con Belbo. Ci conoscevamo di vista, qualche scambio di battute da Pilade, ma non sapevo molto di lui, salvo che lavorava alla Garamond, e di libri Garamond me ne erano capitati alcuni tra le mani all'università.
1066 La conversazione da Pilade mi aveva offerto, di Belbo, il volto esterno. Un buon osservatore avrebbe potuto intuire la natura melanconica del suo sarcasmo. Non posso dire che fosse una maschera. Forse maschera erano le confidenze a cui si abbandonava in segreto.
1067 Trasformare i libri con due parole. Demiurgo sull'opera altrui. Invece di prendere della creta molle e di plasmarla, piccoli colpi alla creta indurita in cui qualcun altro ha già scolpito la statua. Mosè, dargli la martellata giusta, e quello parla.
1068 E poi incontro te, amore, con tante rughe intorno agli occhi, e il volto ancora bello che si strugge di ricordo, e tenero rimorso. Quasi ti ho sfiorata sul marciapiede, sono là a due passi, e tu mi hai guardato come guardi tutti, cercando un altro oltre la loro ombra.
1069 Vai, vai per il mondo, Guglielmo Si Sei famoso, mi passi accanto e non mi riconosci. Io mormoro tra me essere o non essere e mi dico bravo Belbo, buon lavoro. Vai vecchio Guglielmo S., a prenderti la tua parte di gloria: tu hai solo creato, io ti ho rifatto.
1070 Noi, che facciamo partorire i parti altrui, come gli attori non dovremmo essere seppelliti in terra consacrata. Ma gli attori fingono che il mondo, cosa com'è, vada in modo diverso, mentre noi fingiamo de l'infinito universo e mondi, la pluralità dei compossibili.
1071 Costei mi aggredì in una lingua che mi pareva di avere già udito da qualche parte, sino a che non capii che era un italiano privo quasi del tutto di vocali. Le chiesi di Belbo. Dopo avermi fatto attendere qualche secondo, mi condusse lungo il corridoio in un ufficio sul fondo dell'appartamento.
1072 Fummo interrotti da un tipo di una quarantina d'anni, che portava una giacca di alcune misure più ampia, pochi capelli biondo chiari che gli ricadevano su due sopracciglia folte, altrettanto gialle. Parlava in modo soffice, come se educasse un bambino.
1073 Mi pentii. In fondo vivevo da due anni coi Templari, e li amavo. Ricattato dallo snobismo dei miei interlocutori, li avevo presentati come personaggi da cartone animato. Forse era colpa di Guglielmo di Tiro, storiografo infido.
1074 Luigi attacca dal mare Damietta, la riva nemica è tutto un rilucere di picche e alabarde e orifiamme, scudi e scimitarre, gran bella gente a vedersi, dice Joinville con cavalleria, che portano armi d'oro percosse dal sole. Luigi potrebbe attendere, decide invece di sbarcare a ogni costo.
1075 Lo sbarco incredibilmente riesce, i saraceni incredibilmente lasciano Damietta, tanto che il re esita ad entrarvi perché non crede a quella fuga. Ma è vero, la città è sua e suoi ne sono í tesori e le cento moschee che subito Luigi converte in chiese del Signore.
1076 Allora i Templari, per non essere disonorati, si buttano anch'essi all'assalto, ma giungono solo a ridosso dell'Artois, il quale è già penetrato nel campo nemico e ha fatto strage. I musulmani si danno alla fuga verso Mansurah.
1077 Invito a nozze per l'Artois, che fa per inseguirli. I Templari cercano di fermarlo, fratello Gilles, gran comandante del Tempio, lo blandisce dicendogli che ha già compiuto un'impresa mirabile, delle più grandi mai realizzate in terra d'oltremare.
1078 Ma l'Artois, moscardino assetato di gloria, accusa di tradimento i Templari, anzi aggiunge che, se Templari e Ospitalieri avessero voluto, quella terra sarebbe già stata conquistata da molto tempo, e lui aveva dato una prova di cosa si potesse fare se si aveva sangue nelle vene.
1079 Troppo per l'onore del Tempio. Il Tempio non è secondo a nessuno, tutti si buttano verso la città, vi entrano, inseguono i nemici sino alle mura del lato opposto, e a quel punto i Templari si accorgono di aver ripetuto l'errore di Ascalona.
1080 Lo sguardo di Joinville si muove dall'alto in basso o dal basso in alto, a seconda che lui cada da cavallo o vi risalga, e mette a fuoco scene isolate, il piano della battaglia gli sfugge, tutto si risolve in duello individuale, e non di rado dall'esito casuale.
1081 Ma le crociate si facevano con teologale malafede. A San Giovanni d'Acri Luigi viene accolto da trionfatore e si reca ad incontrarlo tutta la città in processione, col clero e le dame e i fanciulli. I Templari la sanno più lunga e cercano di entrare in trattative con Damasco.
1082 Luigi lo viene a sapere, non sopporta di essere scavalcato, sconfessa il nuovo gran maestro di fronte agli ambasciatori musulmani, e il gran maestro si rimangia la parola data ai nemici, si inginocchia davanti al re e gli chiede scusa.
1083 Non si può dire che i cavalieri non si fossero battuti bene, e disinteressatamente, ma íl re di Francia li umilia, per riaffermare il suo potere – e per riaffermare il suo potere, mezzo secolo dopo, il suo successore Filippo li manderà al rogo.
1084 Un processo pieno di silenzi, contraddizioni, enigmi e stupidità. Le stupidità erano le più appariscenti, e in quanto inspiegabili coincidevano di regola con gli enigmi. In quei giorni felici credevo che la stupidità creasse enigma.
1085 L'altra sera nel periscopio pensavo che gli enigmi più terribili, per non rivelarsi come tali, si travestano da follia. Ora penso invece che il mondo sia un enigma benigno, che la nostra follia rende terribile perché pretende di interpretarlo secondo la propria verità.
1086 I Templari erano rimasti senza scopo. Ovvero, avevano trasformato i mezzi in scopo, amministravano la loro immensa ricchezza. Naturale che un monarca accentratore come Filippo il Bello li vedesse di malocchio. Come si poteva tenere sotto controllo un ordine sovrano.
1087 Il gran maestro aveva il rango di un principe del sangue, comandava un esercito, amministrava un patrimonio fondiario immenso, era eletto come l'imperatore, e aveva un'autorità assoluta. Il tesoro francese non era nelle mani del re, ma era custodito nel Tempio di Parigi.
1088 I Templari erano i depositari, i procuratori, gli amministratori dí un conto corrente intestato formalmente al rè. Incassavano, pagavano, giocavano sugli interessi, si comportavano da grande banca privata, ma con tutti i privilegi e le franchigie di una banca di stato.
1089 Ci vuole poco per passare alla mormorazione allusiva: omosessuali, eretici, idolatri che adorano una testa barbuta che non si sa da dove venga, ma certo non dal panteon dei buoni credenti, forse condividono i segreti degli Ismailiti, hanno commercio con gli Assassini del Veglio della Montagna.
1090 Alle spalle di Filippo si muovono le sue anime dannate, Marigny e Nogaret. Marigny è quello che alla fine metterà le mani sul tesoro del Tempio e lo amministrerà per conto del re, in attesa che passi agli Ospitalieri, e non è chiaro chi fruisca degli interessi.
1091 A un certo punto entra in scena tale Esquieu de Floyran. Pare che, in prigione per delitti imprecisati e sull'orlo della condanna capitale, incontri in cella un Templare rinnegato, anche lui in attesa del capestro, e ne raccolga delle terribili confessioni.
1092 E questo è il terzo mistero: è vero che tortura c'è stata, e vigorosa, se trentasei cavalieri ne muoiono, ma di questi uomini di ferro, abituati a tener testa al turco crudele, nessuno tiene testa ai balivi. A Parigi solo quattro cavalieri su centotrentotto rifiutano di confessare.
1093 Ma siccome si rischia che il processo sfugga al re e passi nelle mani del papa, il re e Nogaret mettono in piedi un caso clamoroso che coinvolge il vescovo di Troyes, accusato di stregoneria, su delazione di un misterioso mestatore, tale Noffo Dei.
1094 Nogaret si frega le mani: a pubblico delitto, pubblica condanna, e definitiva, con procedura d'urgenza. Come Molay si era comportato anche il precettore di Normandia, Geoffroy di Charnay. Il re decide in giornata: si erige un rogo sulla punta dell'isola della Cité.
1095 La tradizione vuole che il gran maestro prima di morire avesse profetizzato la rovina dei suoi persecutori. In effetti il papa, il re e Nogaret sarebbero morti entro l'anno. Quanto a Marigny, dopo la scomparsa del re sarà sospettato di malversazioni.
1096 Un giorno c'era un grande corteo contro le trame nere, che doveva partire dall'università, e a cui erano stati invitati, come accadeva allora, tutti gli intellettuali antifascisti. Fastoso schieramento di polizia, ma sembrava che l'intesa fosse di lasciar correre.
1097 Fu a questo punto che accadde l'incidente. Non ricordo bene, il corteo si era mosso, un gruppo di attivisti, con catene e passamontagna, aveva cominciato a forzare lo schieramento della polizia per dirigersi in piazza San Babila, lanciando slogan aggressivi.
1098 Il leone si mosse, e con una certa decisione. La prima fila dello schieramento si aprì ed apparvero gli idranti. Dagli avamposti del corteo partirono le prime le prime pietre, un gruppo di poliziotti partì deciso in avanti, picchiando con violenza, e il corteo si mise a ondeggiare.
1099 Si può essere vili perché il coraggio degli altri ti pare sproporzionato alla vacuità della circostanza? Allora la saggezza rende vili. E quindi si manca l'Occasione buona quando si passa la vita a spiare l'Occasione e a ragionarci su.
1100 L'Occasione si sceglie d'istinto, e sul momento non sai che è l'Occasione. Forse una volta l'ho colta, e non l'ho mai saputo? Come si fa ad avere la coda di paglia e a sentirsi vigliacco solo perché si è nato nel decennio sbagliato.
1101 Quelli del Viottolo non potevano attraversare la zona del Canaletto senza essere assaliti e picchiati. All'inizio non sapevo di essere del Viottolo, ero appena arrivato, ma quelli del Canaletto mi avevano già identificato come nemico.
1102 Passavo dalle loro parti con un giornalino aperto davanti agli occhi, camminavo leggendo, e quelli mi avvistarono. Mi misi a correre, e loro dietro, tirarono dei sassi, uno attraversò il giornalino, che continuavo a tenere aperto davanti a me mentre correvo, per darmi un contegno.
1103 Purtroppo mi esprimevo in italiano: ero un diverso. Si fece avanti il capo, Martinetti, che allora mi parve torreggiante, corrusco a piedi nudi. Decise che avrei dovuto subire cento calci nel sedere. Forse dovevano risvegliare il serpente Kundalini.
1104 Accettai. Mi misi contro il muro, tenuto per le braccia da due marescialli, e subii cento colpi di piede nudo. Martinetti compiva il suo lavoro con forza, con entusiasmo, con metodo, colpendo di pianta e non di punta, per non farsi male agli alluci.
1105 Mentre eravamo intenti a questi giochi di pace, una sera Martinetti ci disse che il momento era venuto. Il anello di sfida era stato inviato alla banda del Canaletto e quelli avevano accettato. Lo scontro era previsto in territorio neutro, dietro alla stazione.
1106 Fu un tardo pomeriggio, estivo e spossato, di grande eccitazione. Ciascuno di noi si preparò coi parafernali più terrorizzanti, cercando pezzi di legno che potessero essere agilmente impugnati, riempiendo le giberne e il tascapane di sassi di varia grandezza.
1107 Nessuno ci aveva provvisti di grappa prima dell'assalto, ma ci precipitammo egualmente, vociando. E il fatto avvenne a cento metri dalla stazione. Là iniziavano a sorgere le prime case che, per quanto rade, costituivano già un reticolo di viuzze.
1108 Se Martinetti ci avesse organizzato in avanguardia e retroguardia, avremmo fatto il nostro dovere, ma fu una sorta di distribuzione spontanea. I fegatosi avanti, i vili indietro. E dal nostro rifugio, il mio più arretrato di quello degli altri, osservammo lo scontro.
1109 Arrivati a pochi metri gli uni dagli altri, i due gruppi si fronteggiarono, digrignanti, poi i capi si fecero avanti e parlamentarono. Fu una l'alta, decisero di dividersi le zone di influenza e di rispettare i transiti occasionali, come avveniva tra cristiani e musulmani in Terrasanta.
1110 Ora, più vilmente ancora mi dico che se mi fossi buttato avanti con gli altri non avrei rischiato nulla, e sarei vissuto meglio per gli anni a venire. Ho mancato l'Occasione, a dodici anni. Come mancare l'erezione la prima volta, è l'impotenza per tutta la vita.
1111 Un mese dopo, quando per uno sconfinamento casuale il Viottolo e il Canaletto si trovarono di fronte in un campo, e incominciarono a volare zolle di terra, non so se rassicurato dalla dinamica dello scorso evento, o desideroso di martirio, mi esposi in prima linea.
1112 Fu una sassaiola incruenta, salvo che per me. Una zolla, che evidentemente celava un cuore di pietra, mi prese sul labbro e lo spaccò. Fuggii a casa piangendo, e mia madre dovette lavorare con le pinzette da toeletta per togliermi la terra dalla fessura che si era formata all'interno della bocca.
1113 Lo seguii. Ma avevamo appena iniziato a degustare che Gudrun entrò e venne a dire che c'era un signore. Belbo si batté una mano sulla fronte. Si era scordato di quell'appuntamento, ma il caso ha il gusto del complotto, mi disse.
1114 Così disparvero i cavalieri del Tempio con il loro segreto, nell'ombra del quale palpitava una bella speranza della città terrena. Ma l'Astratto al quale era incatenato il loro sforzo proseguiva in regioni sconosciute la sua vita inaccessibile.
1115 Aveva una faccia da anni quaranta. A giudicare dalle vecchie riviste che avevo trovato nella cantina di casa, negli anni quaranta tutti avevano una faccia del genere. Doveva essere la fame del tempo di guerra: incavava il volto sotto gli zigomi e rendeva l'occhio vagamente febbricitante.
1116 Io non sono un uomo di scienza, sono un uomo d'azione. Invece di far troppe congetture, ho fatto quello che tanti studiosi, troppo verbosi, non hanno mai fatto. Sono andato là da dove i Templari venivano e dove avevano la loro base da due secoli, dove potevano nuotare come pesci nell'acqua.
1117 «No, signor Casaubon. Prove. Lei non ha visto le gallerie di Provins. Sale e sale, nel cuore della terra, piene di graffiti. Si trovano per lo più in quelle che gli speleologi chiamano alveoli laterali. Sono raffigurazioni ieratiche, di origine druidica.
1118 Con gesto teatrale il colonnello ci aveva mostrato il foglio. Ce l'ho ancora qui, tra le mie carte, in una cartellina di plastica, più giallo e sbiadito di quanto non fosse allora, su guella, carta termica che si usava in quegli anni.
1119 Io non capivo sino a qual punto Diotallevi facesse dell'aritmetica una religione o della religione un'aritmetica, e probabilmente erano vere entrambe le cose, e avevo di fronte un ateo che godeva del rapimento in qualche cielo superiore.
1120 Ora non ricordo esattamente che cosa accadde, ma Belbo intervenne col suo buon senso padano e spezzò l'incanto. Restavano al colonnello altre righe da interpretare e tutti volevamo sapere. Ed erano già le sei di sera. Le sei, pensai, che sono anche le diciotto.
1121 Belbo fu breve: gli ripeté tutto quello che aveva già detto per telefono, senza altri particolari, se non inessenziali. Il colonnello aveva raccontato una storia fumosa, dicendo di aver scoperto le tracce di un tesoro in certi documenti trovati in Francia, ma non ci aveva detto molto di più.
1122 Pareva pensasse di possedere un segreto pericoloso, e voleva renderlo pubblico prima o poi, per non esserne l'unico depositario. Aveva accennato al fatto che altri prima di lui, una volta scoperto il segreto, erano scomparsi misteriosamente.
1123 Avrebbe mostrato i documenti solo se gli avessimo assicurato il contratto, ma Belbo non poteva assicurare alcun contratto se prima non vedeva qualcosa, e si erano lasciati con un vago appuntamento. Aveva menzionato un incontro con tale Rakasky, e aveva detto che era il direttore dei Cahiers du Mystère.
1124 Ero a corto di ideali. Avevo un alibi, perché amando Amparo facevo all'amore con il Terzo Mondo. Amparo era bella, marxista, brasiliana, entusiasta, disincantata, aveva una borsa di studio e un sangue splendidamente misto. Tutto insieme.
1125 Stava per rientrare in patria e non volevo perderla. Fu lei che mi mise in contatto con un'università di Rio dove cercavano un lettore d'italiano. Ottenni il posto per due anni, rinnovabili. Visto che l'Italia mi stava andando stretta, accettai.
1126 L'analogia dei contrari è il rapporto della luce all'ombra, della vetta all'abisso, del pieno al vuoto. L'allegoria, madre di tutti i dogmi, è la sostituzione dell'impronta al suggello, delle ombre alla realtà, è la menzogna della verità e la verità della menzogna.
1127 Ero arrivato in Brasile per amore di Amparo, vi ero rimasto per amore del paese. Non ho mai capito perché questa discendente di olandesi che si erano installati a Recife e si erano mescolati con indios e negri sudanesi, dal volto di una giamaicana e dalla cultura di una parigina, avesse un nome spagnolo.
1128 Misurai le sue splendide contraddizioni vedendola discutere coi suoi compagni. Erano riunioni in case malmesse, decorate con pochi poster e molti oggetti folcloristici, ritratti di Lenin e terrecotte nordestine che celebravano il cangaceiro, o feticci amerindi.
1129 Non ero arrivato in uno dei momenti politicamente più limpidi e avevo deciso, dopo l'esperienza in patria, di tenermi lontano dalle ideologie, specie laggiù, dove non le capivo. I discorsi dei compagni di Amparo aumentarono la mia incertezza, ma mi stimolarono nuove curiosità.
1130 Lungo la spiaggia vidi delle offerte votive, delle candeline, delle corbeille bianche. Amparo mi disse che erano offerte a Yemanjà, la dea delle acque. Scese dalla macchina, si recò compunta sulla battigia, ristette alcuni momenti in silenzio.
1131 Quando tornai in Europa trasformai questa metafisica in una meccanica – e per questo precipitai nella trappola ove ora mi trovo. Ma allora mi mossi in un crepuscolo dove si annullavano le differenze. Razzista, pensai che le credenze altrui sono per l'uomo forte occasioni di blando fantasticare.
1132 Così è accaduto a me come a un etnologo saccente che per anni abbia studiato il cannibalismo e, per sfidare l'ottusità dei bianchi, racconti a tutti che la carne umana ha un sapore delicato. Irresponsabile, perché sa che non gli accadrà mai di assaggiarla.
1133 Un poco ero impressionato, un poco volevo capire, e cerco di avvicinarmi alla ragazza, che intanto si è riavuta, si è infilata un soprabito abbastanza malmesso e sta uscendo dal retro. Sto per toccarla su una spalla e mi sento prendere per un braccio.
1134 Mi volto ed è il commissario De Angelis, che mi dice di lasciarla stare, tanto lui sa dove trovarla. Mi invita a prendere un caffè. Lo seguo, come se mi avesse colto in fallo, e in un certo senso era vero, e al bar mi chiede perché io ero là e perché cercavo di avvicinare la ragazza.
1135 Mi dice che se so qualcosa di più è meglio che parli perché è strano che la ragazza si sia volatilizzata e le ragioni sono due: o qualcuno si è accorto che lui, De Angelis, la teneva d'occhio, o hanno notato che un certo Jacopo Belbo cercava di parlarle.
1136 Le scrivo perché, come io ho trovato il suo indirizzo, così potrebbe trovarlo De Angelis: se si mette in contatto con lei, sappia almeno la linea che ho tenuto io. Ma siccome mi pare una linea pochissimo retta, se lei crede, dica tutto.
1137 La lettera mi turbò. Non per timore di essere cercato da De Angelis, figuriamoci, in un altro emisfero, ma per ragioni più impercettibili. In quel momento pensai che mi irritava che mi tornasse di rimbalzo laggiù un mondo che avevo lasciato.
1138 Ora comprendo che ciò che mi perturbava era un'ennesima trama della somiglianza, il sospetto di un'analogia. Come reazione istintiva pensai che mi infastidiva ritrovare Belbo con la sua eterna coda di paglia. Decisi di rimuovere tutto, e non menzionai la lettera ad Amparo.
1139 L'altra sera nel periscopio mi dicevo che invece i fatti erano forse andati ben diversamente: la sensitiva aveva, sì, citato qualcosa udito da Ardenti, ma qualcosa che le riviste non avevano detto mai, e che nessuno doveva conoscere.
1140 Così semplice, se ci fosse stato un Piano. Ma c'era, visto che lo avremmo inventato noi, e molto tempo dopo? È possibile che la realtà non solo superi la finzione, ma la preceda, ovvero corra in anticipo a riparare i danni che la finzione creerà.
1141 Eppure allora, in Brasile, non furono quelli i pensieri che mi suscitò la lettera. Piuttosto, di nuovo, sentii che qualcosa assomigliava a qualcosa d'altro. Pensavo al viaggio a Bahia, e dedicai un pomeriggio a visitare negozi di libri e oggetti di culto, che sino ad allora avevo trascurato.
1142 Trovai bottegucce quasi segrete, ed empori sovraccarichi di statue e di idoli. Acquistai perfumadores di Yemanjà, zampironi mistici dal profumo pungente, bacchette di incenso, bombole di spray dolciastro intitolato al Sacro Cuore di Gesù, amuleti da pochi soldi.
1143 Ero diventato uno shaker ambulante, buono solo a mescolare intrugli di liquori diversi, o avevo provocato un cortocircuito inciampando in un intrico di fili multicolori che si stavano aggrovigliando da soli, e da lunghissimo tempo.
1144 Il pittore ci fece visitare per due giorni navate e chiostri, al riparo delle facciate decorate come piatti d'argento ormai anneriti e consunti. Eravamo accompagnati da famigli rugosi e zoppicanti, le sacrestie erano malate d'oro e di peltro, di pesanti cassettoni, di cornici preziose.
1145 Mi muovevo per strade antiche, incantato da nomi che parevan canzoni, Rua da Agonia, Avenida dos Amores, Travessa de Chico Diabo... Ero capitato a Salvador all'epoca in cui il governo, o chi per esso, stava risanando la città vecchia per espellerne le migliaia di bordelli, ma si era ancora a metà strada.
1146 Fu così che conoscemmo il signor Agliè. Correttamente vestito di un doppiopetto gessato, malgrado il caldo, lenti con montatura d'oro sul viso roseo, capelli argentati. Baciò la mano ad Amparo, come chi non conoscesse altro modo di salutare una signora, e ordinò champagne.
1147 Il pittore doveva andare, Agliè gli consegnò un mazzo di travellers' cheques, disse di mandargli l'opera in albergo. Restammo a conversare, Agile parlava il portoghese con correttezza, ma come chi lo avesse appreso a Lisbona, il che gli dava ancor più il tono di un gentiluomo d'altri tempi.
1148 Agliè parve imbarazzato dal contatto, ma non vi si sottrasse. Solo, come lo vidi fare in seguito nei momenti di riflessione, con l'altra mano trasse dal panciotto una piccola scatola d'oro e d'argento, forse una tabacchiera o un portapillole, col coperchio adorno di un'agata.
1149 Sul tavolo del bar ardeva un piccolo lume di cera, e Agliè, come per caso, vi avvicinò la scatoletta. Vidi che al calore l'agata non si scorgeva più, e al suo posto appariva una miniatura, finissima, in verde blu e oro, che rappresentava una pastorella con un cestino di fiori.
1150 Nulla di eccezionale, la tipica carriera dell'avventuriero settecentesco, con meno amori di Casanova e truffe meno teatrali di quelle di Cagliostro. In fondo, con qualche incidente, gode di un certo credito presso i potenti, a cui promette le meraviglie dell'alchimia, ma con piglio industriale.
1151 Salvo che intorno a lui, e certo animata da lui, prende forma la diceria della sua immortalità. Si fa udire nei salotti a citare con disinvoltura avvenimenti remoti come se ne fosse stato testimone oculare, e coltiva la sua leggenda con grazia, quasi in sordina.
1152 La settimana seguente fu Aglie a telefonarmi. Quella sera saremmo stati accolti in un terreiro de candomblé. Non saremmo stati ammessi al rito, perché la Ialorixà diffidava dei turisti, ma lei stessa ci avrebbe ricevuti prima dell'inizio, e ci avrebbe mostrato l'ambiente.
1153 Ci venne a prendere in macchina, e guidò attraverso le favelas, oltre la collina. L'edificio davanti a cui ci fermammo aveva un aspetto dimesso, come un casermone industriale, ma sulla soglia un vecchio negro ci accolse purificandoci con suffumigi.
1154 All'interno trovammo una grande sala, dalle pareti ricoperte di quadri, specie di ex voto, maschere africane. Aglie ci spiegò la disposizione degli arredi: in fondo le panche per i non iniziati, presso il fondo il palchetto per gli strumenti, e le sedie per gli Oga.
1155 «È una storia complessa. Anzitutto c'è un ramo sudanese, che s'impone nel nord sin dagli inizi dello schiavismo, e da questo ceppo proviene il candomblé degli orixàs, e cioè delle divinità africane. Negli stati del sud si ha l'influenza dei gruppi bantu e a questo punto iniziano commistioni a catena.
1156 L'incontro con la badessa del terreiro fu calmo, cordiale, popolaresco e colto. Era una grande negra, dal sorriso smagliante. A prima vista la si sarebbe detta una massaia, ma quando incominciammo a parlare capii perché donne del genere potevano dominare la vita culturale di Salvador.
1157 Poi ci invitò a uscire nel giardino posteriore, per visitare le cappelle, prima dell'inizio del rito. Nel giardino stavano le case degli orixàs. Uno stuolo di ragazze negre, in costume bahiano, si affollavano gaiamente per gli ultimi preparativi.
1158 Le case degli orixàs erano disposte per il giardino come le cappelle di un Sacro Monte, e mostravano all'esterno l'immagine del santo corrispondente. All'interno stridevano i colori crudi dei fiori, delle statue, dei cibi cotti da poco e offerti agli dei.
1159 La Ialorixà ci mostrò una serie di maschere che alcuni accoliti stavano portando nel tempio. Erano grandi bautte di paglia, o cappucci, di cui avrebbero dovuto rivestirsi i medium a mano a mano che entravano in trance, preda della divinità.
1160 E una forma di pudore, ci disse, in certi terreiro i prediletti danzano a volto nudo, esponendo agli astanti la loro passione. Ma l'iniziato va protetto, rispettato, sottratto alla curiosità dei profani, o di chi comunque non ne possa comprendere l'interno giubilo, e la grazia.
1161 Ricordavo – quanto si ricorda, mentre si attende nel buio, per ore e ore – una delle ultime sere. Avevamo i piedi che ci dolevano dal molto camminare per vicoli e piazze, e ci eravamo messi a letto presto, ma senza voglia di dormire.
1162 Amparo andava verso il cucinotto, e mi piaceva desiderarla controluce. E intanto C.R. tornava dalla Germania, e invece di dedicarsi alla trasmutazione dei metalli, come ormai il suo immenso sapere gli avrebbe permesso, decideva di consacrarsi a una riforma spirituale.
1163 Quanto invece ai vari movimenti che pretendono di riannodarsi, se pure con molte puerilità, alla Grande Fraternità Bianca, Bramanti riconosceva come abbastanza ortodossa la Rosicrucian Fellowship di Max Heindel, ma solo perché in quell'ambiente si era formato Main Kardec.
1164 La radice è Aum o Um, che è poi lo Om buddista, ed è il nome di Dio nella lingua adamica. Um è una sillaba che se viene pronunciata nel modo giusto si trasforma in un poderoso mantra e provoca correnti fluidiche di armonia nella psiche attraverso la siakra o Plesso Frontale.
1165 Quella sera telefonò Agliè, chiedendo nostre notizie e avvertendoci che il giorno dopo saremmo stati finalmente invitati a un rito. Nell'attesa, mi proponeva di bere qualcosa. Amparo aveva una riunione politica coi suoi amici, e andai da solo all'appuntamento.
1166 Le visioni sono bianche, blu, bianco rosso chiaro. Infine esse sono miste e tutte chiare, color di fiamma di una candela bianca, vedrete delle scintille, sentirete la pelle d'oca lungo tutto il corpo, tutto ciò annuncia il principio della trazione che la cosa fa con colui che compie l'opera.
1167 Arrivammo. Dall'esterno la tenda sembrava un edificio comune: anche qui si entrava da un giardinetto, più modesto di quello di Bahia, e davanti alla porta del barracao, una sorta di magazzeno, trovammo la statuetta dell'Exu, già circondata di offerte propiziatorie.
1168 Agliè ci fece cenno di entrare. Se l'esterno era dimesso, l'interno era una fiammata di colori violenti. Era una sala quadrangolare, con una zona riservata alla danza dei cavalos, l'altare in fondo, protetta da una cancellata, a ridosso della quale si ergeva il palco dei tamburi, gli atabaques.
1169 Lo spazio rituale era ancora sgombro, merítre al di qua della cancellata si agitava già una folla composita, fedeli, curiosi, bianchi e neri mescolati, tra cui spiccavano i medium coi loro assistenti, i cambonos, vestiti di bianco, alcuni a piedi nudi, altri con scarpe da tennis.
1170 Tra le donne vi erano anche alcune europee. Agliè ci indicò una bionda, una psicologa tedesca, che da anni seguiva i riti. Aveva tentato di tutto, ma se non si è predisposti, e prediletti, è inutile: la trance per lei non arrivava mai.
1171 Ora so che Hesed non è solo la sefirah della grazia e dell'amore. Come ricordava Diotallevi, e anche il momento dell'espansione della sostanza divina che si diffonde verso la sua infinita periferia. E cura dei vivi verso i morti, ma qualcuno deve aver pur detto che è anche cura dei morti verso i vivi.
1172 Io, battendo l'agogo, non stavo più seguendo quanto andava svolgendosi nella sala, impegnato com'ero ad articolare il mio controllo e a farmi guidare dalla musica. Amparo doveva essere rientrata da una decina di minuti, e certamente aveva provato lo stesso effetto che io avevo provato prima.
1173 La vidi buttarsi di colpo in mezzo alla danza, arrestarsi con il viso anormalmente teso verso l'alto, il collo quasi rigido, poi abbandonarsi smemorata a una sarabanda lasciva, con le mani che accennavano all'offerta del proprio corpo.
1174 I cambonos si presero cura di lei, le fecero indossare la veste rituale, la sostennero mentre dava termine alla sua trance, breve ma intensa. La accompagnarono a sedere quando ormai era madida di sudore e respirava con affanno.
1175 Amparo chiese di essere condotta alla toeletta. Il rito si stava concludendo. Sola in mezzo alla sala la tedesca danzava ancora, dopo aver seguito con sguardo invidioso la vicenda di Amparo. Ma si muoveva ormai con ostinazione svogliata.
1176 La Rottura dei Vasi. Diotallevi ci avrebbe parlato sovente del tardo cabalismo di Isaac Luria, in cui si perdeva l'ordinata articolazione dei sefirot. La creazione, diceva, è un processo di inspirazione ed espirazione divina, come un alito ansioso, o l'azione di un mantice.
1177 La rottura dei vasi è una catastrofe seria, diceva Diotallevi preoccupato, niente è meno vivibile di un mondo abortito. Doveva esserci un difetto nel cosmo sin dalle origini, e i rabbini più sapienti non erano riusciti a spiegarlo del tutto.
1178 Forse nel momento in cui Dio espira e si svuota, nel recipiente originario rimangono delle gocce d'olio, un residuo materiale, il reshimu, e Dio già si effonde insieme a questo residuo. Oppure da qualche parte le conchiglie, i qelippot, i principi della rovina attendevano sornioni in agguato.
1179 Dell'Italia degli ultimi anni avevo capito molto poco. L'avevo lasciata sull'orlo di grandi mutamenti, quasi sentendomi in colpa perché fuggivo nel momento della resa dei conti. Ero partito che sapevo riconoscere l'ideologia di qualcuno dal tono di voce, dal giro delle frasi, dalle citazioni canoniche.
1180 Tornavo, e non capivo più chi stesse con chi. Non si parlava più di rivoluzione, si citava il Desiderio, chi si diceva di sinistra menzionava Nietzsche e Céline, le riviste di destra celebravano la rivoluzione del Terzo Mondo.
1181 Tornai da Pilade, ma mi sentii in terra straniera. Rimaneva il bigliardo, c'erano più o meno gli stessi pittori, ma era cambiata la fauna giovanile. Appresi che alcuni dei vecchi avventori avevano ormai aperto scuole di meditazione trascendentale e ristoranti macrobiotici.
1182 Mi decisi a inventarmi un lavoro. Mi ero accorto che sapevo tante cose, tutte sconnesse tra loro, ma che ero in grado di connetterle in poche ore con qualche visita in biblioteca. Ero partito che occorreva avere una teoria, e soffrivo di non averla.
1183 Ora bastava avere nozioni, tutti ne erano ghiotti, e tanto meglio se erano inattuali. Anche all'università, dove avevo rimesso piede per vedere se potevo collocarmi da qualche parte. Le aule erano calme, gli studenti scivolavano per i corridoi come fantasmi, prestandosi a vicenda bibliografie fatte male.
1184 Quella sera stessa ero a una festa da vecchi amici e riconobbi un tale, che lavorava per una casa editrice. Era entrato dopo che la casa aveva smesso di pubblicare i romanzi dei collaborazionisti francesi per dedicarsi a testi politici albanesi.
1185 Lia. Ora dispero di rivederla, ma potrei non averla mai incontrata, e sarebbe stato peggio. Vorrei che fosse qui, a tenermi per mano, mentre ricostruisco le tappe della mia rovina. Perché lei me lo aveva detto. Ma deve rimanere fuori da questa storia, lei e il bambino.
1186 Fu un incontro cordiale, nei limiti della sua espansività. Qualche battuta sui vecchi tempi, sobrie reticenze sull'ultimo evento che ci aveva visto complici e sui suoi strascichi epistolari. Il commissario De Angelis non si era fatto più vivo.
1187 Ci vedemmo altre volte, gli raccontai delle mie esperienze brasiliane, ma lo trovai sempre un poco distratto, più del solito. Quando non c'era Lorenza Pellegrini teneva lo sguardo fisso sulla porta, quando c'era lo muoveva con nervosismo per il bar, e ne seguiva le mosse.
1188 Permettetemi intanto di dare un consiglio al mio futuro o attuale lettore, che sia effettivamente malinconico: non deve leggere i sintomi o le prognosi nella parte che segue, per non risultarne turbato e trarne infine più male che bene, applicando quello che legge a se stesso.
1189 Per esempio è senza data il file sulla cena col dottor Wagner. Il dottor Wagner, Belbo lo conosceva prima della mia partenza, e avrebbe avuto rapporti con lui anche dopo l'inizio della mia collaborazione con la Garamond, tanto che lo avvicinai anch'io.
1190 Perché poi i due gruppi trovassero una fonte di ispirazione ideologica nelle teorie di Wagner era un'altra storia. Ma in quegli anni la psicoanalisi di Wagner appariva abbastanza decostruttiva, diagonale, libidinale, non cartesiana, da suggerire spunti teorici all'attività rivoluzionaria.
1191 Risultava complicato farla digerire agli operai, e forse per questo i due gruppi, a un certo punto, furono costretti a scegliere tra gli operai e Wagner, e scelsero Wagner. Fu elaborata l'idea che il nuovo soggetto rivoluzionario non fosse il proletario ma il deviante.
1192 La Garamond, finanziata da un istituto di psicologia, aveva tradotto una raccolta di saggi minori di Wagner, molto tecnici, ma ormai introvabili, e quindi molto richiesti dai fedeli. Wagner era venuto a Milano per la presentazione, e in quell'occasione era iniziato il suo rapporto con Belbo.
1193 Ma non doveva avermi perdonato, perché quella sera del divorzio mi ha vibrato un colpo mortale. Senza saperlo, d'istinto: senza saperlo aveva cercato di sedurmi e senza saperlo ha deciso di punirmi. A costo della deontologia mi ha psicoanalizzato gratis.
1194 Il baretto è breve, furtivo. Ti permette un'attesa lunga dolce per tutto il giorno, sino a che vai a celarti nella penombra sulle poltrone di cuoio, alle sei del pomeriggio non c'è nessuno, la sordida clientela verrà alla sera, con il pianista.
1195 La figura di lui. Le consentiva molta libertà, era sempre in viaggio. La sospetta liberalità di colui: potevo telefonare anche a mezzanotte, lui c'era e tu no, lui mi rispondeva che tu eri fuori, anzi visto che telefoni non sai per caso dove sia.
1196 Le cose si erano complicate con Sandra: quella volta sì era resa conto che la storia mi prendeva troppo, la vita a due era diventata piuttosto tesa. Dobbiamo lasciarci? Allora lasciamoci. No, aspetta, riparliamone. No, così non può andare avanti.
1197 Si discuteva sulla coppia, sul divorzio come illusione della Legge. Preso dai miei problemi partecipavo alla conversazione con calore. Ci lasciammo trascinare in ludi dialettici, parlando noi mentre Wagner taceva, dimenticando di avere con noi un oracolo.
1198 Poi si voltò da un'altra parte, disse che faceva caldo, accennò a un'aria d'opera lirica muovendo un grissino come se dirigesse un'orchestra lontana, sbadigliò, si concentrò su di una torta con panna, e infine, dopo una nuova crisi di mutismo, chiese di essere riportato in albergo.
1199 Quando tornasti, mi annunciasti radiosa che gli avevi scritto una lettera di addio. A quel punto mi chiesi cosa sarebbe accaduto tra me e Sandra, ma tu non mi lasciasti il tempo di inquietarmi. Mi dicesti che avevi conosciuto un tale, con una cicatrice sulla guancia e un appartamento molto zingaresco.
1200 Poi per alcuni Dio e per altri la classe operaia, e per molti entrambi. Era consolante per un intellettuale pensare che ci fosse l'operaio, bello, sano, forte, pronto a rifare il mondo. E poi, lo avete visto anche voi, l'operaio c'era ancora, ma la classe no.
1201 Debbono averla ammazzata in Ungheria. E siete arrivati voi. Per lei è stato naturale, forse, ed è stata una festa. Per quelli della mia età no, era la resa dei conti, il rimorso, il pentimento, la rigenerazione. Noi avevamo mancato e voi arrivavate a portare l'entusiasmo, il coraggio, l'autocritica.
1202 Percorremmo il corridoio, salimmo tre scalini, e passammo attraverso una porta a vetri smerigliati. Di colpo entrammo in un altro universo. Se i locali che avevo visto sinora erano bui, polverosi, slabbrati, questi sembravano la saletta vip di un aeroporto.
1203 Musica diffusa, pareti azzurre, una sala d'aspetto confortevole con mobili firmati, le pareti adorne di fotografie in cui si intravedevano signori con la faccia da deputato che consegnavano una vittoria alata a signori con la faccia da senatore.
1204 La sala non era immensa, ma richiamava alla mente il salone di Palazzo Venezia, con un globo terracqueo all'ingresso, e la scrivania di mogano del signor Garamond là in fondo, che pareva di guardarlo con un binocolo rovesciato.
1205 Fu in quel momento che la signora Grazia annunciò il commendator De Gubernatis. Il signor Garamond esitò un momento, mi guardò dubbioso, Belbo gli fece un segno, come per dirgli che ormai poteva fidarsi. Garamond ordinò che l'ospite fosse fatto entrare e gli andò incontro.
1206 Il lancio sarebbe stato satrapico. Comunicato stampa di dieci cartelle, con biografia e saggio critico. Nessun pudore, tanto nelle redazioni dei giornali sarebbe stato cestinato. Stampa effettiva: mille copie in fogli stesi di cui solo trecentocinquanta rilegati.
1207 Nell'estate sarebbe arrivato il premio Petruzzellis della Gattina, creatura di Garamond. Costo totale: vitto e alloggio per la giuria, due giorni, e Nike di Samotracia in vermiglione. Telegrammi di felicitazione degli autori Manuzio.
1208 De Gubernatis impazzisce dal dolore, i parenti lo consolano, la gente non ti capisce, certo che se eri dei loro, se mandavi la bustarella a quest'ora ti avevano recensito anche sul Corriere, è tutta una mafia, bisogna resistere.
1209 Avevo creduto a lungo che lo facesse perché così poteva coltivare i suoi studi sulla stoltezza umana, e da un osservatorio esemplare. Quella che lui chiamava stupidità, il paralogismo imprendibile, l'insidioso delirio travestito da argomentazione impeccabile, lo affascinava – e non faceva che ripeterlo.
1210 Il vendicatore mascherato. Come Clark Kent curo i giovani geni incompresi e come Superman punisco i vecchi geni giustamente incompresi. Collaboro a sfruttare chi non ha avuto il mio coraggio, e non ha saputo limitarsi al ruolo di spettatore.
1211 Comunque non dovevo occuparmi della Manuzio, ma della meravigliosa avventura dei metalli. Incominciai le mie esplorazioni delle biblioteche milanesi. Partivo dai manuali, ne schedavo la bibliografia, e di lì risalivo agli originali più o meno antichi, dove potevo trovare delle illustrazioni decenti.
1212 Avevo creduto che il progetto Hermes fosse un'idea appena abbozzata. Non conoscevo ancora il signor Garamond. Mentre io nei giorni seguenti mi attardavo nelle biblioteche per cercare illustrazioni sui metalli, alla Manuzio stavano già lavorando.
1213 Nel frattempo il signor Garamond aveva scritto una serie di lettere alle varie riviste di ermetismo, astrologia, tarocchi, ufologia, firmandosi con un nome qualsiasi, e chiedendo informazioni sulla nuova collana annunciata dalla Manuzio.
1214 Bella pretesa, commentò Belbo una volta tornati in ufficio. Ma gli dei del sottosuolo ci proteggevano. Proprio in quell'istante entrò Lorenza Pellegrini, più solare che mai, Belbo divenne raggiante, lei vide i depliant e si incuriosì.
1215 Per l'occasione il trio era al completo, io Belbo e Diotallevi, e poco mancò che all'ingresso dell'ospite non lanciassimo un grido di sopresa. Aveva la facies hermetica descritta da Lorenza Pellegrini, e per di più era vestito di nero.
1216 In breve tempo avemmo però decine di manoscritti sicuramente APS. Occorreva un minimo di scelta, visto che si voleva anche venderli. Escluso che si potesse leggere tutto, consultavamo gli indici, dando un'occhiata, poi ci comunicavamo le nostre scoperte.
1217 Agliè parve felice di risentirmi. Mi domandò notizie della deliziosa Amparo, gli feci timidamente capire che era una storia passata, si scusò, fece alcune garbate osservazioni sulla freschezza con cui un giovane può aprire sempre nuovi capitoli alla sua vita.
1218 Dalla nascita del Progetto Hermes sino a quel giorno mi ero divertito spensieratamente alle spalle di mezzo mondo. Ora Essi incominciavano a presentare il conto. Ero anch'io un'ape, e correvo verso un fiore, ma non lo sapevo ancora.
1219 Agliè abitava dalle parti di piazzale Susa: una piccola via riservata, una palazzina fine secolo, sobriamente floreale. Ci aprì un vecchio cameriere in giacca a righe, che ci introdusse in un salottino e ci pregò di attendere il signor conte.
1220 Entrò Agliè, sempre impeccabile. Ci strinse la mano e si scusò: una noiosa riunione, del tutto imprevista, lo obbligava a trattenersi ancora per una decina di minuti nel suo studio. Disse al cameriere di portarci del caffè e ci pregò di accomodarci.
1221 Poi uscì, scostando una pesante cortina di vecchio cuoio. Non era una porta e, mentre prendevamo il caffè sentivamo arrivare voci concitate dalla stanza accanto. Sulle prime parlammo tra di noi ad alta voce, per non ascoltare, poi Belbo osservò che forse disturbavamo.
1222 In un istante di silenzio udimmo una voce, e una frase, che suscitarono la nostra curiosità. Diotallevi si alzò con l'aria di ammirare una stampa secentesca alla parete, proprio accanto alla cortina. Era una caverna montana, a cui alcuni pellegrini salivano per sette scalini.
1223 L'alta adunque fatica nostra è stata di trovar ordine in queste sette misure, capace, bastante, distinto, et che tenga sempre il senso svegliato et la memoria percossa... Questa alta et incomparabile collocatione fa non solamente officio di conservarci le affidate cose parole et arti.
1224 Sollevò la cortina in cuoio, e ci fece passare nell'altra stanza. Studiolo non l'avremmo definita, ampia com'era, e arredata con squisite scaffalature d'antiquariato, ricolme di libri ben rilegati, certamente tutti di venerabile età.
1225 Ciò che ci colpì, più che i libri, furono alcune vetrinette ricolme di oggetti incerti, pietre ci parvero, e piccoli animali, non capimmo se impagliati o mummificati o finemente riprodotti. Il tutto come sommerso in una luce diffusa e crepuscolare.
1226 Sembrava provenire da una grande bifora di fondo, dalle vetrate piombate a losanghe dalle trasparenze ambrate, ma la luce della bifora si amalgamava con quella di una grande lampada posata su un tavolo di mogano scuro, ricoperto di carte.
1227 Era una di quelle lampade che si trovano talora sui tavoli di lettura delle vecchie biblioteche, dalla boccia verde a cupola, capaci di gettare un ovale bianco sulle pagine, lasciando l'ambiente in una penombra di opalescenze.
1228 Agliè lo ringraziò con un sorriso educato. Parlava lasciando vagare lo sguardo sul soffitto, ma mi parve che la sua ispezione non fosse né oziosa né casuale. I suoi occhi seguivano una traccia, come se leggessero nelle immagini quello che egli fingeva di riesumare nella memoria.
1229 Zio Carlo, come direttore delle imposte, era un notabile locale. E come mutilato di guerra e cavaliere della corona d'Italia, non poteva che simpatizzare col governo in carica, che si dava il caso fosse la dittatura fascista. Era fascista zio Carlo.
1230 Sapevo chi era Riccardo, girava sempre da Pilade, ma allora non capii perché Belbo si concentrò con maggior impegno sul soffitto. Dopo aver letto i files so che Riccardo era l'uomo con la cicatrice, con cui Belbo non aveva avuto il coraggio di ingaggiar rissa.
1231 Quella sera, non appena entrati nella nuova galleria, capii che la poetica di Riccardo aveva subito una profonda evoluzione. L'esposizione si intitolava Megale Apophasis. Riccardo era passato al figurativo, con una tavolozza smagliante.
1232 Frattanto Lorenza era corsa ad abbracciare Riccardo, lui e Belbo si erano scambiati un cenno di saluto. C'era ressa, la galleria si presentava come un loft di New York, tutto bianco, e con i tubi del riscaldamento, o dell'acqua, a nudo sul soffitto.
1233 Ma pochi stavano fermi. La folla era intenta a una sorta di movimento circolare, come api che cercassero un fiore ancora ignoto. Io non cercavo nulla, eppure mi ero alzato, e mi spostavo seguendo gli impulsi che mi venivano inviati dal gruppo.
1234 Andò, barcollando lievemente, in un angolo dove sedeva una ragazza vestita di nero, con gli occhi molto bistrati, la carnagione pallida. L'attrasse al centro della sala e iniziò a ondeggiare con lei. Stavano quasi ventre contro ventre, le braccia rilassate lungo i fianchi.
1235 Gli altri si erano fatti intorno a semicerchio, un poco eccitati, e qualcuno gridò qualcosa. Belbo si era seduto, con un'espressione impenetrabile, e guardava la scena come un impresario che assista a un provino. Era sudato e aveva un tic all'occhio sinistro, che non gli avevo mai notato.
1236 Udii qualche risatina fra gli astanti. Credo le avesse udite anche Belbo. Mi scorse sulla soglia, e fece qualcosa che non ho mai saputo se fosse per me, per gli altri, per lui. Lo fece in sordina, a mezza voce, quando ormai gli altri si erano disinteressati di loro.
1237 Prendemmo a muoverci per le gallerie, e il signor Salon mi parlava gettando sguardi distratti lungo il cammino, all'imboccatura di nuove vie, all'aprirsi di altri pozzi, come se cercasse nella penombra la conferma dei suoi sospetti.
1238 In certe regioni dell'Himalaya, tra i ventidue templi che rappresentano i ventidue Arcani di Hermes e le ventidue lettere di alcuni alfabeti sacri, l'Agarttha forma lo Zero mistico, l'introvabile... Una scacchiera colossale che si estende sotto la terra, attraverso quasi tutte le regioni del Globo.
1239 Un giorno vidi il signor Salon sulla porta del suo laboratorio. Di colpo, tra il lusco e il brusco, mi attendevo che emettesse il verso della civetta. Mi salutò come un vecchio amico e mi chiese come andava laggiù. Feci un gesto vago, gli sorrisi, e filai via.
1240 C'era la solita ressa nella sala schedari e al banco richieste. A spintoni mi impadronii del cassettino che cercavo, trovai l'indicazione, riempii la scheda e la passai all'impiegato. Mi comunicò che il libro era in prestito e, come avviene nelle biblioteche, pareva ne godesse.
1241 Lo riconobbi, e lui riconobbe me – troppo in fretta, direi. Io lo avevo visto in circostanze che per me erano eccezionali, lui nel corso di un'indagine di routine. Inoltre ai tempi di Ardenti avevo una barbetta rada e i capelli un poco più lunghi.
1242 L'invito mi imbarazzava, ma non potevo sottrarmi. Ci sedemmo in un bar dei paraggi. Mi chiese come mai mi occupavo della missione dell'India, e io fui tentato di chiedergli subito perché se ne occupava lui, ma decisi di coprirmi prima le spalle.
1243 Tornando a casa mi domandavo chi avesse fatto l'affare. Lui mi aveva raccontato una quantità di cose, io nulla. A esser sospettosi, forse mi aveva sottratto qualcosa senza che io me ne accorgessi. Ma a esser sospettosi si cade nella psicosi del complotto sinarchico.
1244 Eravamo in autunno. Una mattina andai in via Marchese Gualdi, perché dovevo chiedere al signor Garamond l'autorizzazione per ordinare all'estero dei fotocolor. Scorsi Agliè nell'ufficio della signora Grazia, chino sullo schedario autori della Manuzio.
1245 Non conosceva Lia, ma sapeva che avevo una compagna. Dissi che sarei venuto solo. Da due giorni avevo litigato con Lia. Era stata una sciocchezza, infatti tutto si sarebbe sistemato in una settimana. Ma sentivo il bisogno di allontanarmi da Milano per due giorni.
1246 Arrivammo alla villa. Villa per modo di dire: costruzione padronale, ma che aveva al pianterreno le grandi cantine dove Adelino Canepa – il mezzadro rissoso, quello che aveva denunciato lo zio ai partigiani – faceva il vino dai vigneti della tenuta dei Covasso.
1247 In una piccola casa colonica accanto c'era ancora una vecchia, ci disse Belbo, la zia di Adelino – gli altri erano ormai morti tutti e due, gli zii, i Canepa, restava solo la centenaria a coltivare un orticello, con quattro galline e un maiale.
1248 Le terre erano andate per pagare le tasse di successione, i debiti, chi si ricordava più. Belbo andò a bussare alla porta della casa colonica, la vecchia si fece sull'uscio, ci mise qualche tempo a riconoscere il visitatore, poi gli fece ampie manifestazioni di omaggio.
1249 Come entrammo nella villa, Lorenza lanciava esclamazioni di gioia a mano a mano che scopriva scale, corridoi, stanze ombrose con antichi mobili. Belbo stava sull'understatement, osservando che ciascuno ha la Donnafugata che può, ma era commosso.
1250 A sera molto si celebrò la caduta del bando antialcolico. Jacopo sembrava aver dimenticato i suoi umori elegiaci, e si misurò con Diotallevi. Immaginarono macchine assurde, per scoprire a ogni passo che erano già state inventate.
1251 Su ogni terzo albero, da entrambi i lati, era stata appesa una lanterna, e una splendida vergine, anch'ella vestita di blu, le accese con una torcia meravigliosa e io mi attardai, più del necessario, per ammirare lo spettacolo che era di una bellezza indicibile.
1252 Alle due trovammo un confortevole ristorante sulla piazza del mercato, e la scelta dei cibi e dei vini permise a Belbo di rievocare altri eventi della sua infanzia. Ma parlava come se citasse da una biografia altrui. Aveva perduto la felicità narrativa del giorno prima.
1253 Mi avvicinai al buffet. C'erano caraffe con liquidi colorati, ma non riuscivo a identificarli. Mi versai una bevanda gialla che sembrava vino, non era cattivo, sapeva dí vecchio rosolio, ma era certamente alcolico. Forse conteneva qualcosa: incominciò a girarmi la testa.
1254 È pertanto l'alchimia una casta meretrice, che ha molti amanti, ma tutti delude e a nessuno concede il suo amplesso. Trasforma gli stolti in mentecatti, i ricchi in miserabili, i filosofi in allocchi, e gli ingannati in loquacissimi ingannatori.
1255 Dapprima la penombra sfumò in un buio assoluto, poi, mentre si udiva un borbottio glutinoso, un ribollire di lava, fummo in un cratere, dove una materia vischiosa e scura sussultava al bagliore intermittente di vampe gialle e bluastre.
1256 Era come se avessi bevuto alcool oltre misura, non vedevo più i miei compagni, scomparsi nella penombra, non riconoscevo le figure che scivolavano accanto a me e le avvertivo come sagome scomposte e fluide... Fu allora che mi sentii afferrare per una mano.
1257 Nella pece, ora grigiastra, si stava disegnando un orizzonte di rocce e alberi rinsecchiti, oltre al quale stava tramontando un sole nero. Poi fu una luce quasi abbacinante, e apparvero immagini sfavillanti, che si riflettevano per ogni dove creando un effetto di caleidoscopio.
1258 Il serpente si muoveva al ritmo di una musica triste e lenta. I vecchi monarchi indossavano ora una veste nera e davanti a loro stavano sei bare coperte. Si udirono alcuni suoni cupi di basso tuba, e apparve un uomo incappucciato di nero.
1259 Nel basamento del castelletto si scorgevano i corpi dei decapitati. Una delle donne portò una cassetta da cui trasse un oggetto rotondo che depose sopra il basamento, in un fornice della torre centrale, e subito la fontana sul culmine prese a zampillare.
1260 Lorenza questa volta mi stava posando la mano sulla nuca, l'accarezzava come l'avevo vista fare, furtiva, a Jacopo sulla macchina. La donna stava portando una sfera d'oro, apriva un rubinetto nel forno del basamento e faceva colare nella sfera un liquido rosso e denso.
1261 Poi la sfera fu aperta e in luogo del liquido rosso conteneva un uovo grande e bello, bianco come la neve. Le donne lo presero e lo posero a terra, in un mucchio di sabbia gialla, sino a che l'uovo si aprì e ne uscì un uccello, ancora deforme e sanguinante.
1262 Ora stavano decapitando l'uccello e riducendolo in cenere sopra un piccolo altare. Alcuni stavano impastando la cenere, versavano quella pasta in due stampi, e ponevano gli stampi a cuocere in un forno, soffiando sul fuoco con dei tubi.
1263 Alla fine gli stampi vennero aperti e apparvero due figure pallide e graziose, quasi trasparenti, un fanciullo e una fanciulla, alti non più di quattro spanne, morbidi e carnosi come creature vive, ma con gli occhi ancora vitrei, minerali.
1264 Arrivarono altre donne portando delle trombe dorate, decorate con corone verdi e ne porsero una al vegliardo, il quale l'accostò alla bocca delle due creature, ancora sospese tra un languore vegetale e un dolce sonno animale, e cominciò a insufflare anima nei loro corpi.
1265 La sala si riempì di luce, la luce si affievolì in penombra, poi in un'oscurità interrotta da lampi arancione, quindi fu un immenso chiarore d'alba mentre alcune trombe suonavano alte e squillanti, e fu un fulgore di rubino, insopportabile.
1266 Era difficile stabilire se si trattasse di modelli in plastica, in cera, o di esseri viventi, anche perché la leggera torbidezza del liquido non lasciava capire se il lieve ansimare che li animava fosse effetto ottico o realtà.
1267 Lasciai il gruppo, rientrai nell'edificio facendomi largo tra la folla, passai dal buffet, presi qualcosa di fresco, temendo che contenesse un filtro. Cercavo una toeletta per bagnarmi le tempie e la nuca. La trovai, e mi sentii sollevato.
1268 Finii in una sala sotto il livello del suolo, illuminata con parsimonia, dalle pareti in rocaille come le fontane del parco. In un angolo scorsi un'apertura, simile alla campana di una tromba murata, e già da lontano sentii che ne provenivano rumori.
1269 Questo Vello d'Oro è custodito da un Dragone tricipite, di cui il primo capo deriva dalle acque, il secondo dalla terra e il terzo dall'aria. È necessario che questi tre capi finiscano in un solo Dragone potentissimo, che divorerà tutti gli altri Dragoni.
1270 Al tavolo stava Bramanti, addobbato con una tunica scarlatta e paramenti verdi ricamati, una cappa bianca dalla frangia d'oro, una croce scintillante sul petto, e un cappello di forma vagamente mitrale, ornato di un pennacchio bianco e rosso.
1271 Bramanti stava parlando, con le braccia alzate, come se pronunciasse una litania, e gli astanti rispondevano a tratti. Poi Bramanti alzò la spada e tutti trassero dalla tunica uno stiletto, o un tagliacarte, e lo levarono in alto.
1272 Avevo notato al centro della radura un cumulo di pietre, che richiamava sia pure vagamente un dolmen. Probabilmente la radura era stata scelta proprio a causa della presenza di quei massi. Una celebrante salì sul dolmen e soffiò in una tromba.
1273 Era difficile sottrarsi al fascino della scena, anche perché le vesti delle celebranti si amalgamavano col biancore dei fumi, e le loro figure parevano uscire da quella oscurità lattea, e rientrarvi, come se ne fossero generate.
1274 Ci fu un momento in cui la nube aveva invaso tutto il centro del prato e alcuni batuffoli, che salivano sfilacciandosi verso l'alto, stavano quasi nascondendo la luna, seppur non tanto da illividire la radura, sempre chiara ai margini.
1275 Rientrò nel bosco, subito assorbito dall'umidità che ci avviluppava. Ci muovemmo rabbrividendo, scivolando sul fondo di foglie putride, ansanti e disordinati come un'armata in fuga. Ci ritrovammo sulla strada. Avremmo potuto essere a Milano in meno di due ore.
1276 Avrei dovuto ascoltare Lia. Parlava con la saggezza di chi sa dove nasce la vita. Inoltrandoci nei sotterranei di Agarttha, nella piramide di Iside Svelata, eravamo entrati in Geburah, la sefirah del terrore, il momento in cui la collera si fa sentire nel mondo.
1277 Non mi ero lasciato sedurre, sia pure per un attimo, dal pensiero di Sophia? Dice Mosè Cordovero che il Femminile è a sinistra, e tutte le sue direzioni sono di Geburah... A meno che il maschio metta in opera queste tendenze per adornare la sua Sposa, e intenerendole le faccia marciare verso il bene.
1278 Se Geburah è la sefirah del male e della paura, Tiferet è la sefirah della bellezza e dell'armonia. Diceva Diotallevi: è la speculazione illuminante, l'albero di vita, il piacere, l'apparenza porporina. E l'accordo della Regola con la Libertà.
1279 E quell'anno fu per noi l'anno del piacere, del sovvertimento giocoso del gran testo dell'universo, in cui si celebrarono gli sponsali della Tradizione con la Macchina Elettronica. Creavamo, e ne traevamo diletto. Fu l'anno in cui inventammo il Piano.
1280 Almeno per me, sicuramente, fu un anno felice. La gravidanza di Lia stava procedendo serenamente, tra la Garamond e la mia agenzia cominciavo a vivere senza ristrettezze, avevo conservato l'ufficio nel vecchio fabbricato di periferia, ma avevamo ristrutturato l'appartamento di Lia.
1281 Mi muovevo tra i diabolici con la disinvoltura di uno psichiatra che si affeziona ai suoi pazienti, e trova balsamiche le brezze che spirano dal parco secolare della sua clinica privata. Dopo un poco inizia a scrivere pagine sul delirio, poi pagine di delirio.
1282 Della città ho un'immagine più chiara. È Parigi, io sono sulla riva sinistra, so che attraversando il fiume mi troverei in una piazza che potrebbe essere place des Vosges... no, più aperta, perché sullo sfondo si erge una sorta di Madeleine.
1283 Gli avevo chiesto non so quale testo, ed egli aveva rovistato sul tavolo, tra una pila di manoscritti posati perigliosamente, e senza alcun criterio di mole e grandezza, gli uni sugli altri. Aveva individuato il testo che cercava e aveva tentato di sfilarlo, facendo rovinare il resto per terra.
1284 Continuammo per alcune decine di minuti. Poi era davvero tardi. Ma Belbo ci disse di non preoccuparci. Avrebbe continuato da solo. Gudrun venne a dire che stava chiudendo, Belbo le comunicò che sarebbe rimasto a lavorare e la pregò di raccogliere i fogli per terra.
1285 Gudrun emise alcuni suoni che potevano appartenere sia al latino sine flexione come alla lingua cheremis, e che esprimevano sdegno e disappunto in entrambe, segno della parentela universale fra tutte le lingue, discendenti da un unico ceppo adamico.
1286 Se la nostra ipotesi è esatta, il Santo Graal... era la stirpe e i discendenti di Gesù, il 'Sang real' di cui erano guardiani i Templari... Nel contempo il Santo Graal doveva essere, alla lettera, il ricettacolo che aveva ricevuto e contenuto il sangue di Gesù.
1287 Avevo mantenuto rapporti coi miei amici brasiliani, e in quei giorni si teneva a Coimbra un convegno sulla cultura lusitana. Più per desiderio di rivedermi che per omaggio alle mie competenze, gli amici di Rio riuscirono a farmi invitare.
1288 Poi la nostra guida ci portò a vedere la finestra manuelina, la janela per eccellenza, un traforo, un collage di reperti marini e sottomarini, alghe, conchiglie, ancore, gomene e catene, a celebrazione delle vicende dei Cavalieri sugli oceani.
1289 Ma ai due lati della finestra, a serrare come in una cintura le due torri che la inquadravano, si vedevano scolpite le insegne della Giarrettiera. Che cosa ci stava a fare il simbolo di un ordine inglese in quel monastero fortificato portoghese.
1290 La guida non ce lo seppe dire, ma poco dopo, su di un altro lato, credo quello di nordovest, ci mostrò le insegne del Toson d'Oro. Non potei evitare di pensare al sottile gioco di alleanze che univa la Giarrettiera al Toson d'Oro, questo agli Argonauti, gli Argonauti al Graal, il Graal ai Templari.
1291 Discendemmo in una cripta. Dopo sette scalini, una pietra nuda conduce all'abside, dove potrebbe sorgere un altare o un seggio del gran maestro. Ma vi si perviene passando sotto a sette chiavi di volta, ciascuna in forma di rosa, una più grande dell'altra, e l'ultima, più espansa, sovrasta un pozzo.
1292 Penetrando per caso in una stanza non ancora restaurata, arredata con pochi mobili polverosi, trovai il pavimento ingombro di scatoloni di cartone. Rovistai a caso, e mi capitarono tra le mani brandelli di volumi in ebraico, presumibilmente del XVII secolo.
1293 Che cosa ci facevano gli ebrei a Tomar? La guida mi disse che i Cavalieri avevano buone relazioni con la comunità ebraica locale. Mi fece affacciare alla finestra e mi mostrò un giardino alla francese, strutturato come un piccolo elegante labirinto.
1294 Il secondo appuntamento a Gerusalemme... E il primo al Castello. Non recitava così il messaggio di Provins? Perdio, il Castello della Ordonation trovata da Ingolf non era l'improbabile Monsalvato dei romanzi cavallereschi, Avalon l'Iperborea.
1295 Ripartii da Tornar e dal Portogallo con la mente in fiamme. Stavo prendendo finalmente sul serio il messaggio esibitoci da Ardenti. I Templari, costituitisi in ordine segreto, elaborano un piano che deve durare seicento anni e concludersi nel nostro secolo.
1296 I Templari erano persone serie. Quindi se parlavano di un castello, parlavano di un luogo vero. Il piano partiva da Tomar. E allora quale avrebbe dovuto essere il percorso ideale? Quale la sequenza degli altri cinque appuntamenti.
1297 Belbo sembrava disturbato all'idea di tornare al documento lasciatogli dal colonnello, e lo ritrovò frugando a malincuore in un cassetto basso. Però, osservai, lo aveva conservato. Insieme rileggemmo il messaggio di Provins. Dopo tanti anni.
1298 Ero diventato imbattibile nelle catene associative. Bastava partire da un punto qualsiasi. Scozia, Highlands, riti druidici, notte di San Giovanni, solstizio d'estate, fuochi di San Giovanni, Ramo d'oro... Ecco una traccia, se pur fragile.
1299 Che le tue vesti siano candide... Se fa notte, accendi molte luci, sino a che tutto sfolgori... Ora inizia a combinare qualche lettera, o molte, spostale e combinale sino a che il tuo cuore sia caldo. Stai attento al movimento delle lettere e a ciò che puoi produrre mescolandole.
1300 Non è forse te che cercavo? Forse sono qui ad attendere sempre te. Ogni volta ti ho perso perché non ti ho riconosciuto? Ogni volta ti ho perso perché ti ho riconosciuto e non ho osato? Ogni volta ti ho perso perché riconoscendoti sapevo che dovevo perderti.
1301 Lessi i manifesti col proposito di non credere a quel che dicevano, ma di vederli in trasparenza, come se dicessero altro. Sapevo che per fargli dire altro dovevo saltare dei brani, e considerare certe proposizioni come più rilevanti di altre.
1302 Ma era esattamente quello che i diabolici e i loro maestri ci stavano insegnando. Se ci si muove nel tempo sottile della rivelazione non si debbono seguire le catene puntigliose e ottuse della logica e la loro monotona sequenzialità.
1303 Dunque non potevano dire quel che dicevano in apparenza, e quindi non erano né un richiamo a una profonda riforma spirituale, né la storia del povero Christian Rosencreutz. Erano, un messaggio in codice da leggere sovrapponendogli una griglia e una griglia lascia liberi certi spazi e ne copre altri.
1304 Per esempio, perché tanta insistenza sul fatto che il tempo fosse giunto, che fosse giunto il momento, malgrado il nemico avesse posto in opera tutte le sue astuzie perché l'occasione non si realizzasse? Quale occasione? Si diceva che la meta finale di C.
1305 Ecco la chiave! I tedeschi della quarta linea si stavano lamentando che gli inglesi della seconda linea avessero perso i francesi della terza linea! Ma certo. Si potevano individuare nel testo allegorie di una trasparenza addirittura puerile: si apre il sepolcro di C.
1306 Chiesi un altro giorno di tempo, rovistai nel mio schedario e tornai in ufficio sfavillante di orgoglio. Avevo trovato una traccia, apparentemente minima, ma così lavora Sam Spade, nulla è irrilevante per il suo sguardo grifagno.
1307 Sbirciando vidi qualcosa della trascrizione che il dottore stava tentando di un alfabeto segreto. Ma egli nascose subito il manoscritto sotto un pila di altri fogli ingialliti. Vivere in un'epoca, e in un ambiente, in cui ogni foglio, anche se è appena uscito dal laboratorio del cartaio, è ingiallito.
1308 Dee ci ha messi al corrente di una parte del Complotto Cosmico. Si trattava di incontrare a Parigi l'ala franca dei Templari, e congiungere insieme due parti della stessa mappa. Sarebbero andati Dee e Spenser, accompagnati da Pedro Nunez.
1309 Era sera. La neve luccicava bluastra. All'ingresso oscuro del quartiere ebraico s'accoccolavano le bancarelle del mercato natalizio, e nel mezzo, rivestito di panno rosso, l'osceno palcoscenico di un teatro di burattini illuminato da fiaccole fumiganti.
1310 Ma subito dopo si passava sotto un'arcata in pietra quadra e vicino a una fontana in bronzo, dalla cui griglia pendevano lunghi ghiaccioli, si apriva l'androne di un altro passaggio. Su vecchie porte teste auree di leoni azzannavano anelli di bronzo.
1311 Bussammo, e la porta si aprì come per incanto. Entrammo in un ampio salone, adorno di candelabri a sette braccia, tetragrammi in rilievo, stelle di Davide a raggiera. Vecchi violini, color della velatura di quadri antichi, si ammassavano all'ingresso su una fratina di anamorfica irregolarità.
1312 Ventre del demonio, l'ho pur fatto, e poi William ha inquinato il testo e ha trasportato tutto da Praga a Venezia. Dee era andato su tutte le furie. Ma il pallido, viscido William si sentiva protetto dalla sua regale concubina.
1313 Il dottor Dee è morto, mormorando Luce, più Luce, e domandando uno stuzzicadenti. Poi ha detto: Qualis Artifex Pereo! È stato fatto uccidere da Bacone. Da anni, prima che la regina scomparisse, sconnessa di mente e di cuore, in qualche modo il Verulamio l'aveva sedotta.
1314 Nella Torre, nella Torre, rideva il Verulamio. E da allora quivi io giaccio, con quella larva umana che si dice Soapes, e i carcerieri mi conoscono solo come Jim della Canapa. Ho studiato a fondo, e con ardente zelo, filosofia, giurisprudenza e medicina, e purtroppo anche teologia.
1315 Da una feritoia ho assistito alle nozze regali, coi cavalieri dalla rossa croce che caracollavano al suono delle trombe. Io avrei dovuto essere lì a suonare la tromba, Cecilia lo sapeva, e ancora una volta mi era stato sottratto il premio, la meta.
1316 Dicono che Bacone è morto. Soapes mi assicura che non è vero. Nessuno ne ha visto il cadavere. Vive sotto falso nome presso il landgravio di Hesse, ormai iniziato ai massimi misteri, e dunque immortale, pronto a proseguire la sua cupa battaglia per il trionfo del Piano, in suo nome e sotto suo controllo.
1317 Soapes sta scrivendo. Guardo al di sopra delle sue spalle. Sta tracciando un messaggio incomprensibile: Riwerrun, past Eve and Adam's... Nasconde il foglio, mi guarda, mi vede più pallido di uno Spettro, legge nei miei occhi la Morte.
1318 Benché la volontà sia buona, tuttavia il suo spirito e le sue profezie paiono essere evidenti illusioni del demonio... Esse sono in grado di ingannare molte persone curiose e di causare gran danno e scandalo alla chiesa di Dio Nostro Signore.
1319 Con bella baldanza mi candidai per una ricerca rapida e precisa. Non l'avessi mai promesso. Mi trovai in una palude di libri che comprendevano studi storici e pettegolezzi ermetici, senza riuscire facilmente a distinguere le notizie attendibili da quelle fantasiose.
1320 Loggia delle Neuf Soeurs: vi aderiscono Guillotin e Cabanis, Voltaire e Franklin. Weishaupt fonda gli Illuminati di Baviera. Secondo alcuni è iniziato da un mercante danese, Kólmer, di ritorno dall'Egitto, che sarebbe il misterioso Altotas maestro di Cagliostro.
1321 La sera dopo invitammo Agliè a visitare Pilade. Per quanto i nuovi frequentatori del bar fossero ritornati alla giacca e alla cravatta, la presenza del nostro ospite, col suo blu gessato e la sua camicia immacolata, la cravatta assicurata da una spilla d'oro, provocò qualche sensazione.
1322 Nei giorni che seguirono trascurai il Piano. La gravidanza di Lia stava volgendo al termine e appena potevo stavo con lei. Lia calmava le mie ansie perché, diceva, non era ancora il momento. Stava seguendo il corso per il parto indolore e io cercavo di seguire i suoi esercizi.
1323 Lia aveva rifiutato l'aiuto che la scienza le porgeva per farci sapere in anticipo il sesso del nascituro. Voleva la sorpresa. Avevo accettato quella sua bizzarria. Le tastavo il ventre, non mi chiedevo che cosa ne sarebbe venuto fuori, avevamo deciso di chiamarlo la Cosa.
1324 Stavo per arrivare alla porta dell'ufficio e si aprì quella del signor Salon. Apparve il vecchio, nel suo grembiule giallo da lavoro. Non potei evitare di salutarlo e mi disse di entrare. Non avevo mai visto il suo laboratorio, ed entrai.
1325 Se dietro a quella porta c'era stato un appartamento, Salon doveva aver fatto abbattere i muri divisori perché quello che vidi era un antro, dalle dimensioni vaste e imprecise. Per qualche remota ragione architettonica quell'ala del casamento era coperta a mansarda, e la luce penetrava da vetrate oblique.
1326 Un grande uccello squartato oscillava seguendo il moto della lancia che lo trafiggeva. Questa gli entrava per il capo e dal petto aperto si vedeva che gli penetrava là dove un tempo erano il cuore e il gozzo, e qui si annodava per diramarsi a tridente capovolto.
1327 Mi scossi, perché Salon stava parlando, e traeva una strana creatura da uno dei suoi scaffali. Sarà stata lunga una trentina di centimetri ed era certamente un drago, un rettile dalle grandi ali nere e membranose, con una cresta di gallo e le fauci spalancate irte di minuscoli denti a sega.
1328 Aprì il suo cofanetto. In un disordine indescrivibile c'erano colletti, elastici, utensili da cucina, insegne di diverse scuole tecniche, persino il monogramma dell'imperatrice Alessandra Feodorovna e la croce della Legion d'Onore.
1329 Mi venne in mente che la collezione di vertebre, la scatola con gli occhi, le pelli che stendeva sulle armature, venissero da qualche campo di sterminio. Ma no, avevo a che fare con un vecchio nostalgico, che si portava dietro antichi ricordi dell'antisemitismo russo.
1330 Non mi piaceva essere il suo caro amico, ma continuavo ad ascoltarlo. Giulio Giulia, il mio Rebis piantato come Lucifero al centro del ventre di Lía, ma lui, lei, la Cosa si sarebbe capovolta, si sarebbe proiettata verso l'alto, in qualche modo sarebbe uscita.
1331 Ochrana, Ochrana, qualcosa come il KGB, non era la polizia segreta zarista? E Rackovskij, chi era? Chi aveva un nome simile? Perdio, il misterioso visitatore del colonnello, il conte Rakosky... No, suvvia, mi stavo facendo sorprendere dalle coincidenze.
1332 Ebbi un momento di panico, io dovevo essere laggiù a contare con Lia, io dovevo stare in ufficio, io avrei dovuto rendermi reperibile. Era colpa mia, la Cosa sarebbe nata morta, Lia sarebbe morta con lei, Salon avrebbe impagliato entrambe.
1333 Entrai in clinica come se avessi la labirintite, chiesi a chi non ne sapeva nulla, sbagliai due volte di reparto. Dicevo a tutti che dovevano ben sapere dove stava partorendo Lia, e tutti mi dicevano di calmarmi perché in quel posto tutti stavano partorendo.
1334 Finalmente, non so come, mi trovai in una camera. Lia era pallida, ma di un pallore perlaceo, e sorrideva. Qualcuno le aveva sollevato il ciuffo, racchiudendolo in una cuffia bianca. Per la prima volta vedevo la fronte di Lia in tutto il suo splendore.
1335 Rilessi i miei appunti a Belbo e Diotallevi, e non avemmo più dubbi. Eravamo finalmente in grado di provvedere ai Templari un dignitoso segreto. Era la soluzione più economica, più elegante, e andavano a posto tutti i pezzi del nostro puzzle millenario.
1336 Gli atlantidi a loro volta avevano appreso tutto da quei nostri progenitori che si erano spinti da Avalon, attraverso il continente di Mu, sino al deserto centrale dell'Australia – quando tutti i continenti erano un unico nucleo percorribile, la meravigliosa Pangèa.
1337 I celti però credevano che bastasse scoprire la pianta globale delle correnti. Ecco perché erigevano megaliti: i menhir erano apparati radioestesici, come degli spinotti, delle prese elettriche infitte nei punti dove le correnti si diramavano in diverse direzioni.
1338 Davamo colpi di pollice al Piano che, come creta molle, ubbidiva ai nostri voleri fabulatori. I Templari avevano scoperto il segreto durante quelle notti insonni, abbracciati al loro compagno di sella, nel deserto dove soffiava inesorabile il simun.
1339 Provammo, e ci arrivammo. La terra è un grande magnete e la forza e direzione delle sue correnti sono determinate anche dall'influenza delle sfere celesti, dai cicli stagionali, dalla precessione degli equinozi, dai cosmici. Per questo il sistema delle correnti è mutevole.
1340 Dunque i Templari avevano organizzato il Piano in modo che solo i loro successori, nel momento in cui fossero in grado di usare bene quello che sapevano, scoprissero dove si trovava l'Umbilicus Telluris. Ma come avevano distribuito i frammenti della rivelazione ai trentasei sparsi per il mondo.
1341 Una carta? Ma una carta ha un segno sul punto dell'Umbilicus. E chi ha in mano il frammento col segno sa già tutto e non ha bisogno degli altri frammenti. No, la cosa doveva essere più complicata. Ci arrovellammo per qualche giorno sino a che Belbo non decise di ricorrere ad Abulafia.
1342 Le vicissitudini dei sei gruppi non si erano limitate alla ricerca della mappa. Probabilmente i Templari, nelle prime due parti del messaggio, quelle in mano ai portoghesi e agli inglesi, alludevano a un Pendolo, ma le idee sui pendoli erano ancora oscure.
1343 Questa scienza, che non si è perduta, almeno per la sua parte materiale, è stata insegnata ai costruttori religiosi dai monaci di Citeaux... Li si conosceva, nel secolo scorso, come Compagnona de la Tour de France. E ad essi che Eiffel si rivolse per costruire la sua torre.
1344 L'idea si presentò a Belbo in una notte d'insonnia. Si era affacciato alla finestra e aveva visto lontano, sopra i tetti di Milano, le luci della torre metallica della RAI, la grande antenna cittadina. Una moderata e prudente torre di Babele.
1345 Andava riletta l'intera storia della scienza: la stessa gara spaziale diventava comprensibile, con quei satelliti folli che altro non fanno che fotografare la crosta del globo per individuarvi tensioni invisibili, flussi sottomarini, correnti d'aria calda.
1346 Quando ci scambiavamo le risultanze del nostro fantasticare ci sembrava, e giustamente, di procedere per associazioni indebite, cortocircuiti straordinari, a cui ci saremmo vergognati di prestar fede – se ce lo avessero imputato.
1347 Forse perché ero in contatto quotidiano con Lia, e col bambino, io ero, dei tre, quello meno affetto dal gioco. Avevo la persuasione di condurlo, mi sentivo come suonassi ancora l'agogò durante il rito: stai dalla parte di chi produce e non di chi patisce le emozioni.
1348 Di Diotallevi non sapevo allora, ora so, Diotallevi stava abituando il suo corpo a pensare in diabolico. Quanto a Belbo si stava immedesimando anche a livello di coscienza. Io mi abituavo, Diotallevi si corrompeva, Belbo si convertiva.
1349 Di Diotallevi avremmo potuto accorgerci, se non fossimo stati così eccitati. Direi che tutto era cominciato alla fine dell'estate. Era riapparso più magro, ma non era la snellezza nervosa di chi avesse passato alcune settimane a marciare in montagna.
1350 Per esempio, la massonologia corrente vede gli Illuminati di Baviera, che perseguivano la distruzione delle nazioni e la destabilizzazione dello stato, non solo come gli ispiratori dell'anarchismo di Bakunin ma anche dello stesso marxismo.
1351 Ma prima di aver potuto rispondere al nuovo quesito ci eravamo incontrati con un altro gruppo che non faceva parte dei trentasei invisibili, ma si era inserito nel gioco assai presto e ne aveva sconvolto in parte i progetti, agendo come elemento di confusione.
1352 Dunque i gesuiti, attraverso Postel, e in forza di un suo momento di debolezza, vengono a sapere del segreto dei Templari. Un segreto di tal fatta va sfruttato. Sant'Ignazio passa all'eterna beatitudine, ma i suoi successori vegliano, e continuano a tenere d'occhio Postel.
1353 E intanto registravano notizie, accumulavano informazioni e le mettevano... dove? Su Abulafia, aveva scherzato Belbo. Ma Diotallevi, che nel frattempo si era documentato per conto proprio, aveva detto che non si trattava di uno scherzo.
1354 Certamente, i gesuiti stavano costruendo l'immenso, potentissimo calcolatore elettronico che avrebbe dovuto trarre una conclusione dal rimescolio paziente e centenario di tutti i brandelli di verità e di menzogna che essi stavano raccogliendo.
1355 Era certamente così. Un conto era concepire il vago progetto di Fludd, per individuare la mappa partendo da una proiezione polare, un conto sapere quante prove ci volevano, e saperle tentare tutte, per arrivare alla soluzione ottimale.
1356 E soprattutto un conto era creare il modello astratto delle combinazioni possibili e un conto pensare a una macchina in grado di metterle in atto. Ed ecco che sia Kircher che il suo discepolo Schott progettano organetti meccanici, meccanismi a schede perforate, computer ante litteram.
1357 Ricordavo una riserva che Agliè aveva espresso su Ramsay, il primo a porre una diretta connessione tra massoneria e Templari, insinuando che avesse dei legami con ambienti cattolici. In effetti già Voltaire aveva denunciato Ramsay come uomo dei gesuiti.
1358 A questo punto però dovevamo tener conto di un altro fatto, di cui il povero Agliè non riusciva a capacitarsi. Perché de Maistre, che era uomo dei gesuiti, e ben sette anni prima che si facesse vivo il marchese de Luchet, era andato a Wilhelmsbad a seminar zizzania fra i neotemplari.
1359 Bloccati da secoli nell'area slava, era naturale che í pauliciani si fossero riorganizzati sotto le varie etichette dei gruppi mistici russi. Uno dei consiglieri influenti di Alessandro I era il principe Galitzin, legato ad alcune sette di ispirazione martinista.
1360 Insomma, a un certo punto i partigiani di Philippe avevano accusato Nilus di vita lasciva, e Dio sa se non avessero ragione anche loro. Nilus aveva dovuto lasciare la corte, ma a questo punto qualcuno gli era venuto in aiuto passandogli il testo dei Protocolli.
1361 La fonte dei nostri mali, presumibilmente edito da certo Boutmi, che con Kruscevan aveva partecipato alla fondazione dell'Unione del Popolo Russo, poi nota come Centurie Nere, la quale arruolava criminali comuni per compiere pogrom e attentati di estrema destra.
1362 I Protocolli sono una serie di ventiquattro dichiarazioni programmatiche attribuite ai Savi di Sion. I propositi di questi Savi ci erano apparsi abbastanza contraddittori, talora vogliono abolire la libertà di stampa, talora incoraggiare il libertinismo.
1363 Avevamo tutto sotto gli occhi da tempo, e non ce n'eravamo mai resi conto appieno. Lungo sei secoli sei gruppi si battono per realizzare il Piano di Provins, e ciascun gruppo prende il testo ideale di quel Piano, vi cambia semplicemente il soggetto, e lo attribuisce all'avversario.
1364 Quando i gesuiti inventano il neotemplarismo, il marchese de Luchet attribuisce il piano ai neotemplari. I gesuiti, che ormai stanno scaricando anche i neotemplari, attraverso Barruel copiano Luchet, ma attribuiscono il piano a tutti i frammassoni in genere.
1365 Si trattava sempre del piano dei gesuiti e, a monte, della Ordonation templare. Poche variazioni, permutazioni minime: i Protocolli si stavano facendo da soli. Un progetto astratto di complotto migrava da complotto a complotto.
1366 Proprio in quei giorni leggendo qualche pagina dei nostri diabolici avevamo trovato che il conte di San Germano, tra i suoi vari travestimenti, aveva assunto anche quello di Rackoczi, o almeno così lo aveva identificato l'ambasciatore di Federico II a Dresda.
1367 Il protettore di Rackovskij era il ministro Sergeij Witte, un progressista che voleva trasformare la Russia in un paese moderno. Perché il progressista Witte si servisse del reazionario Rackovskij, lo sapeva solo Iddio, ma noi eravamo ormai preparati a tutto.
1368 Witte aveva un avversario politico, tale Elle de Cyon, che già lo aveva attaccato pubblicamente con spunti polemici che ricordano certi brani dei Protocolli. Ma negli scritti di Cyon non vi erano accenni agli ebrei, perché lui stesso era di origine ebraica.
1369 Così Rackovskij, trascinato dal suo livore antisemita, contribuisce alla disgrazia del suo protettore. E probabilmente anche alla propria. Infatti da quel momento perdevamo le sue tracce. San Germano forse si era mosso verso nuovi travestimenti e nuove reincarnazioni.
1370 Ho ritrovato dopo questo file, dove Belbo aveva riassunto le nostre conclusioni in termini romanzeschi. Dico in termini romanzeschi perché mi rendo conto che si era divertito a ricostruire la vicenda senza metterci, di suo, che poche frasi di raccordo.
1371 Non individuo tutte le citazioni, i plagi e i prestiti, ma ho riconosciuto molti brani di questo furibondo collage. Ancora una volta, per sfuggire all'inquietudine della Storia, Belbo aveva scritto e rivisitato la vita per interposta scrittura.
1372 Ormai da cinque secoli la mano vendicatrice dell'Onnipotente mi ha spinto, dalle profondità dell'Asia, sino su queste terre. Porto con me lo spavento, la desolazione, la morte. Ma orsù, sono il notaio del Piano, anche se gli altri non Io sanno.
1373 Ne ho ben viste di peggio, e il macchinar la notte di San Bartolomeo m'è costato più tedio di quanto non stia accingendomi a fare. Oh, perché le mie labbra si increspano in questo sorriso satanico? lo sono colui che è, se il maledetto Cagliostro non mi avesse usurpato anche quest'ultimo diritto.
1374 La mezzanotte è da poco suonata in tutti gli orologi della città. Quale innaturale quiete. Questo silenzio non mi convince. La sera è splendida, sebbene freddissima, la luna alta nel cielo illumina di un chiarore algido i vicoli impenetrabili della vecchia Parigi.
1375 Potrebbero essere le dieci di sera: il campanile dell'abbazia dei Black Friars ha da poco battuto lentamente le otto. II vento scuote con lugubre stridio le banderuole di ferro sulla desolata distesa dei tetti. Una spessa coltre di nubi ricopre il cielo.
1376 Come sono arrivato qui, io che sembro l'immagine stessa della vendetta? Gli spiriti dell'inferno sorrideranno con spregio alle lagrime dell'essere la cui voce minacciosa li ha fatti tremare sì sovente nel seno stesso del loro abisso di fuoco.
1377 Quanti scalini ho disceso prima di penetrare in questa stamberga? Sette? Trentasei? Non c'è pietra che abbia sfiorato, passo che abbia compiuto, che non celasse un geroglifico. Quando l'avrò palesato, ai miei fidi sarà rivelato finalmente il Mistero.
1378 Dall'enigma al decrittaggio, il passo è breve, e ne uscirà lampante lo ierogramma, su cui affinare la preghiera dell'interrogazione. Poi più a nessuno potrà essere ignoto l'Arcano, velo, coltre, arazzo egizio che copre il Pentacolo.
1379 Dalla botola pende una scaletta a pioli assicurata al bordo superiore, e su questa, a pelo d'acqua, si sistema Luciano, con un coltello: una mano salda sul primo piolo, l'altra che stringe il pugnale, la terza pronta ad afferrar la vittima.
1380 L'insipiente muove i suoi passi, quasi a tentoni. Un tonfo, cupo. È precipitato nella botola, a pelo d'acqua Luciano lo afferra e vibra la sua lama, un taglio di gola rapido, il gorgoglio del sangue si confonde col ribollire del liquame ctonio.
1381 Tu sorridi con me nell'ombra, e mi dici che tu sei mia, e tuo sarà il mio segreto. Illuditi illuditi, sinistra caricatura della Shekinah. Sì, sono il tuo Simone, attendi, ignori ancora il meglio. E quando l'avrai saputo avrai cessato di saperlo.
1382 Entra dunque, il giovane agatodèmone del delitto, avvolta di una pelliccia d'orso bianco, i lunghi capelli biondi che le fluiscon da sotto Io spavaldo colbacco, sguardo altero, piglio sarcastico. E con il solito raggiro la dirigo verso la perdizione.
1383 È la volta di Nilus, che per un istante aveva creduto di avere e la zarina e la mappa. Sudicio monaco lussurioso, volevi l'Anticristo? Te lo trovi davanti, ma l'ignori. E cieco Io awio, tra mille mistiche lusinghe, al trabocchetto infame che lo attende.
1384 Debbo superare l'ancestrale diffidenza dell'ultimo, il Savio di Sion, che si pretende Asvero, l'Ebreo Errante, come me immortale. Non si fida, mentre sorride untuoso con la barba ancora intrisa del sangue delle tenere creature cristiane di cui è uso far scempio nel cimitero di Praga.
1385 Mi sa Rabkovskij, debbo superarlo in astuzia. Gli faccio intendere che lo scrigno non contenga solo la mappa, ma anche diamanti grezzi, ancora da tagliare. Conosco il fascino che i diamanti grezzi esercitano su questa genia deicida.
1386 Va verso il suo destino trascinato dalla sua cupidigia ed è al Dio suo, crudele e vendicativo, che impreca mentre muore, trafitto come Hiram, e difficile gli è puranco imprecare, perché del suo Dio non riesce a pronunciare il nome.
1387 Come percossa da un turbine, ancora una volta si apre la porta della stamberga ed appare una figura dal volto livido, le mani rattrappite devotamente sul petto, lo sguardo fugace, che non riesce a celare la sua natura perché veste le nere veàfl della sua nera Compagnia.
1388 Rodin, parlando in tal guisa, diventa spaventevole. Tutti quegli istinti di ambizione sanguinaria, sacrilega, esecrabile che si erano manifestati nei papi del Rinascimento, traspaiono ora sulla fronte di quel figlio d'Ignazio.
1389 Il klaft egiziano scende sui tuoi folti capelli, azzurri a forza d'esser neri, il seno palpitante sotto la mussola leggera. Intorno alla piccola fronte arcuata e ostinata si avvolge l'uraeus d'oro dagli occhi di smeraldo, dardeggiando sul tuo capo la sua triplice lingua di rubino.
1390 Ha fatto ancora un passo, strisciando sulle ginocchia rattrappite, la tonaca sollevata sui lombi, la mano ancor più tesa verso questa irraggiungibile felicità. Improwisamente è ricaduto all'indietro, gli occhi che sembrano uscirgli dall'orbite.
1391 La cappella è scavata nella roccia, l'altare è sormontato da una tela inquietante che raffigura i supplizi dei dannati nelle viscere dell'inferno. Alcuni monaci incappucciati mi fanno tenebrosamente ala, e ancora non mi turbo; affascinato come sono dalla fantasia iberica.
1392 Non dispiaceva a Diotallevi, nel senso che il mondo sembrava importargli sempre meno. Ripensandoci ora, continuava a dimagrire in modo preoccupante, certe volte lo sorprendevo nel suo ufficio, chino su un manoscritto, lo sguardo nel vuoto, la penna che stava per cadergli di mano.
1393 Ma c'era un'altra ragione per cui accettavamo che Agliè facesse apparizioni sempre più rade, ci restituisse i manoscritti che aveva bocciato e scomparisse lungo il corridoio. In realtà non volevamo che ascoltasse i nostri discorsi.
1394 Lorenza era uscita, fingendo irritazione. Sapevo che Belbo ne soffriva ancor più: una rabbia vera lo avrebbe pacificato, ma un malumore messo in scena lo induceva a pensare che teatrali, in Lorenza, fossero anche le parvenze di passione, sempre.
1395 Il nazismo fu il momento in cui lo spirito di magia si impadronì delle leve del progresso materiale. Lenin diceva che il comunismo è il socialismo più l'elettricità. In un certo senso, l'hitlerismo era íl guenonismo più le divisioni blindate.
1396 A tutto il mondo: io dichiaro che la terra è vuota e abitabile all'interno, che essa contiene un certo numero di sfere solide, concentriche, cioè poste l'una dentro l'altra, e che è aperta ai due poli per una estensione di dodici o sedici gradi.
1397 Diotallevi disse che poteva andare a casa da solo in tassì, che non era ancora moribondo. Doveva sdraiarsi. Avrebbe subito chiamato un medico, promesso. E che non era la storia di Belbo che lo aveva scosso, stava già male dalla sera prima.
1398 La crisi di Diotallevi era avvenuta a fine novembre. Lo attendevamo in ufficio il giorno dopo e ci aveva telefonato dicendo che si faceva ricoverare. Il medico aveva detto che i sintomi non erano preoccupanti, ma era meglio fare degli esami.
1399 Lorenza si era commossa. Passava alla Garamond quasi ogni giorno, per domandar notizie. Questo avrebbe dovuto rendere Belbo felice, ma ne aveva tratto motivo per una diagnosi fosca. Così presente, Lorenza gli sfuggiva perché non veniva per lui.
1400 Non mi aveva dato tempo di rifletterci sopra perché mi aveva proposto un aperitivo, ed eravamo finiti da Pilade. Non l'avevo mai visto da quelle parti, ma aveva salutato il vecchio Pilade come se si conoscessero da gran tempo.
1401 In ogni caso Salon mi aveva detto abbastanza per rimettere in orgasmo la mia immaginazione. Veglio della Montagna e Assassini non erano per me degli sconosciuti: ne avevo accennato nella tesi, i Templari erano stati accusati di aver collusioni anche con loro.
1402 Le prime fonti erano proprio quelle in cui apparivano le prime narrazioni sui Templari, da Gerardo di Strasburgo a Joinville. I Templari erano entrati in contatto, talora in conflitto, più spesso in misteriosa alleanza, con gli Assassini del Veglio della Montagna.
1403 La storia era naturalmente più complessa. Incominciava dopo la morte di Maometto, con la scissione tra i seguaci della legge ordinaria, i sunniti, e i sostenitori di All, il genero del Profeta, marito di Fatima, che si era visto sottrarre la successione.
1404 Perché, dicevano gli storiografi arabi di linea sunnita, e poi i cronisti cristiani, da Odorico da Pordenone a Marco Polo, il Veglio aveva scoperto un modo atroce per rendere i suoi cavalieri fedelissimi sino all'estremo sacrificio, macchine di guerra invincibili.
1405 Ma avevo scoperto anche altro. Sotto la dinastia dei Fatimidi le nozioni ermetiche degli antichi egizi, attraverso l'accademia di Heliopolis, erano state riscoperte al Cairo, dove era stata istituita una Casa delle Scienze. La Casa delle Scienze.
1406 Non hai mai avuto Cecilia perché gli Arconti hanno fatto Annibale Cantalamessa e Pio Bo inabili al più amichevole degli ottoni. Sei fuggito di fronte al Canaletto perché i Decani hanno voluto risparmiarti per un altro olocausto.
1407 Chi ha scritto quel pensiero, il più rasserenante che sia mai stato pensato? Niente potrà togliermi dalla mente che questo mondo sia il frutto di un dio tenebroso di cui io prolungo l'ombra. La fede porta all'Ottimismo Assoluto.
1408 Quando cede la religione, l'arte provvede. Il Piano l'inventi, metafora di quello inconoscibile. Anche un complotto umano può riempire il vuoto. Non mi hanno pubblicato Quore e pasione perché non appartengo alla cricca templare.
1409 Perché non lo mette in Danimarca, signor Guglielmo S.? Jim della Canapa Johann Valentin Andreae Lucamatteo gira per l'arcipelago della Sonda tra Patmos e Avalon, dalla Montagna Bianca a Mindanao, da Atlantide a Tessa Ionica...
1410 Inventare, forsennatamente inventare, senza badare ai nessi, da non riuscire più a fare un riassunto. Un semplice gioco a staffetta tra emblemi, uno che dica l'altro, senza sosta. Scomporre il mondo in una sarabanda di anagrammi a catena.
1411 Preso dal rimorso quotidiano, per anni e anni, di aver soltanto frequentato i propri fantasmi, stava trovando sollievo nell'intravedere dei fantasmi che stavano diventando oggettivi, noti anche a un altro, fosse egli pure il Nemico.
1412 Belbo, malato di tanti appuntamenti mancati, si sentiva ora dare un appuntamento reale. E in modo tale che non poteva neppure disertarlo per viltà, perché era stato messo con le spalle al muro. La paura lo obbligava a essere coraggioso.
1413 È stato in quei giorni, non più di un mese fa, che Lia ha deciso che mi avrebbe fatto bene un mese di vacanza. Hai l'aria stanca, mi diceva. Forse il Piano mi aveva esausto. D'altra parte il bambino, come dicevano i nonni, aveva bisogno di aria buona.
1414 In quei giorni le ho raccontato tutto il Piano, finito nei suoi minimi particolari. Lei sapeva della malattia di Diotallevi, e io mi sentivo la coda di paglia, come se avessi fatto qualcosa che non dovevo, e cercavo di raccontarlo per quel che era, solo un gioco di bravura.
1415 Credo che nel corso di uno dei loro penosi colloqui Diotallevi avesse anticipato a Belbo quello che poi gli avrebbe detto l'ultimo giorno. Belbo si stava già rendendo conto che immedesimarsi nel Piano era male, forse era il Male.
1416 Ma, forse per oggettivare il Piano e restituirlo alla sua dimensione puramente fittizia, lo aveva scritto, parola per parola, come se fossero le memorie del colonnello. Lo raccontava come un iniziato che comunicasse il suo ultimo segreto.
1417 Dunque Lorenza gli aveva chiesto di accompagnarla in macchina in Riviera, dove doveva passare da un'amica a ritirare non so che cosa, un documento, un atto notarile, una sciocchezza che avrebbe potuto essere spedita per posta.
1418 Ma guarda che combinazione, doveva aver detto Belbo. Una brutta combinazione, aveva detto Lorenza, non voleva che Agliè sapesse che lei era lì e con lui. Perché non voleva, che cosa c'era di male, perché Agliè aveva il diritto di essere geloso.
1419 Ma che diritto, è un fatto di buon gusto, mi aveva invitata fuori per oggi e ho detto che ero occupata, non vorrai che faccia la figura della bugiarda. Non fai la figura della bugiarda, eri davvero occupata con me, è una cosa di cui bisogna vergognarsi.
1420 Avevano abbandonato il ristorante, e avevano iniziato a risalire il sentiero. Ma di colpo Lorenza si era fermata, aveva visto arrivare della gente che Belbo non conosceva, amici di Agliè, diceva lei, e non voleva farsi vedere.
1421 Situazione umiliante, lei appoggiata a un ponticello a picco su una discesa di ulivi, con la faccia coperta dal giornale, come se morisse dalla voglia di sapere cosa stava succedendo nel mondo, lui a dieci passi di distanza, fumando come se passasse di lì per caso.
1422 I commensali di Agliè erano passati ma ora, diceva Lorenza, a continuare lungo il sentiero avrebbero incontrato lui, che certo stava arrivando. Belbo diceva al diavolo, al diavolo, e se così fosse? E Lorenza gli diceva che non aveva un minimo di sensibilità.
1423 Soluzione, raggiungere il luogo del parcheggio evitando il sentiero, tagliando lungo le balze. Fuga ansimante, per una serie di terrazze assolate, e a Belbo si era rotto un tacco. Lorenza diceva non vedi come è più bello così, certo che se continui a fumare tanto poi ti manca il fiato.
1424 Ma perché nell'Oltrepò pavese, ma che cosa vuol dire attraverso l'interno, c'è una sola soluzione, guarda la carta, dobbiamo montare sui monti dopo Uscio, e poi valicare tutto l'Appennino, e far sosta a Bobbio, e di lì si arriva a Piacenza, sei matta, peggio che Annibale con gli elefanti.
1425 Dopo Uscio avevano tentato un passo, e attraversando un paesino che sembrava di essere la domenica pomeriggio in Sicilia e al tempo dei Borsoni, un grande cane nero si era parato attraverso la strada, come se non avesse mai visto un'automobile.
1426 Stavano cercando il maresciallo, quando era arrivata una signora che si era dichiarata zoofila. Ho sei gatti, aveva detto. Che c'entra, aveva detto Belbo, questo è un cane, ormai sta morendo e io ho fretta. Cane o gatto, ci vuole un poco di cuore, aveva detto la signora.
1427 Belbo era ripartito e aveva superato cinicamente il centro più vicino, Lorenza malediceva tutti gli animali di cui il Signore aveva lordato la terra dal primo al quinto giorno compreso, e Belbo era d'accordo ma si spingeva a criticare anche l'opera del sesto giorno, e forse il riposo del.
1428 Per sua sventura la rivista aveva un servizio sui passi appenninici che aveva appena varcato. Nel suo ricordo – appassito come se la vicenda gli fosse accaduta tanto tempo prima – erano una terra arida, assolata, polverosa, cosparsa di detriti minerali.
1429 Come può un uomo correre incontro alla sua rovina solo perché ha investito un cane? Eppure così è stato. Belbo ha deciso quella notte a Piacenza che ritirandosi di nuovo a vivere nel Piano non avrebbe subito altre sconfitte, perché lì era lui che poteva decidere chi, come e quando.
1430 E dev'essere stato quella sera che ha stabilito di vendicarsi di Agliè, anche se non sapeva bene perché e per che cosa. Aveva progettato di far entrare Agliè nel Piano, senza che lo sapesse. E d'altra parte era tipico di Belbo cercar rivincite di cui egli fosse l'unico testimone.
1431 Non dev'essere difficile, pensava Belbo: abbiamo ridotto alla nostra misura Bacone e Napoleone, perché non Agliè? Lo mandiamo anche lui a cercare la Mappa. Di Ardenti e del suo ricordo mi sono liberato collocandolo in una finzione migliore della sua.
1432 Qual è l'influenza nascosta che agisce attraverso la stampa, dietro a tutti í movimenti sovversivi che ci circondano? Ci sono diversi Poteri all'opera? O c'è un solo Potere, un gruppo che dirige tutti gli altri, la cerchia dei Veri Iniziati.
1433 Forse avrebbe dimenticato il suo proposito. Forse gli bastava averlo scritto. Forse sarebbe stato sufficiente che avesse rivisto subito Lorenza. Sarebbe stato ripreso dal desiderio e il desiderio l'avrebbe obbligato a scendere a patti con la vita.
1434 E invece proprio il lunedì pomeriggio gli era capitato in ufficio Agliè, odoroso di colonie esotiche, sorridente, a consegnargli alcuni manoscritti da condannare, e dicendo che li aveva letti durante uno splendido week end in Riviera.
1435 Così, con aria da buffalmacco, gli aveva lasciato capire che da più di dieci anni era oppresso da un segreto iniziatico. Un manoscritto, affidatogli da un certo colonnello Ardenti, che si diceva in possesso del Piano dei Templari.
1436 E Belbo pensava: vecchio voyeur, ti stai eccitando, ben ti sta, con tutte le tue arie da San Germano sei soltanto un cialtroncello che vive sul gioco delle tre carte, e poi comperi il Colosseo dal primo cialtrone più cialtrone di te.
1437 E taceva. Anche Agliè, gaglioffo o meno che fosse, viveva sul serio il suo ruolo. Aveva passato la vita a dilettarsi con segreti impenetrabili, e credeva fermamente, ormai, che le labbra di Belbo sarebbero state sigillate per sempre.
1438 Belbo leggeva il giornale, ma il passeggero con la barba tentava di attaccar discorso con tutti. Aveva iniziato con osservazioni sul caldo, sull'inefficienza del sistema di condizionamento, sul fatto che a giugno non si sa mai se vestirsi d'estate o di mezza stagione.
1439 Una spessa inquietudine si era diffusa tra i coabitanti dello scompartimento. A un certo punto il passeggero con la barba aveva detto che non resisteva alla tensione. Meglio commettere un errore che morire, e aveva avvertito il capotreno.
1440 Il capotreno aveva fatto arrestare il convoglio e aveva chiamato la Polfer. Non so esattamente che cosa fosse successo, il treno fermo in montagna, i passeggeri che sciamavano inquieti lungo la linea, gli artificieri che arrivavano.
1441 Questure e tenenze dei carabinieri in allarme. Stavano già arrivando segnalazioni, al vaglio degli inquirenti. Due cittadini libici fermati a Bologna. Il disegnatore della polizia aveva tentato un identikit, che campeggiava ora sullo schermo.
1442 Mentre cercava di ricostruire ancora una volta i fatti, aveva ricevuto una telefonata. Una voce sconosciuta, straniera, con un accento vagamente balcanico. Una telefonata melliflua, come di uno che non c'entrasse per nulla e che parlasse per puro buon cuore.
1443 Ma possibile che Agliè si fosse piegato a un gioco tanto sordido? Che cosa gliene veniva in tasca? Bisognava prendere per il bavero quel vecchio pazzo, e solo trascinando lui in questura avrebbe potuto uscire da quella storia.
1444 Aveva preso un tassì ed era andato alla palazzina, vicino a piazza Piola. Finestre chiuse, e sul cancello il cartello di un'agenzia immobiliare: AFFITTASI. Ma siamo matti, Agliè abitava lì sino a una settimana prima, gli aveva telefonato lui.
1445 In qualsiasi caso, Belbo era senza alternative. Scomparso Agliè, non poteva mostrare alla polizia chi gli aveva dato la valigia. E se pure la polizia gli avesse creduto, ne sarebbe venuto fuori che egli l'aveva avuta da un ricercato per omicidio, che da almeno due anni lui usava come consulente.
1446 Al solo leggere quanto Belbo aveva confidato ad Abulafia, l'altra mattina mi veniva la tentazione di battere la testa contro il muro. Per convincermi che il muro, almeno il muro, c'era davvero. Immaginavo come doveva essersi sentito lui, Belbo, quel giorno, e nei giorni seguenti.
1447 Alla ricerca di qualcuno da interrogare aveva telefonato a Lorenza. E non c'era. Era pronto a scommettere che non l'avrebbe più rivista. In qualche modo Lorenza era una creatura inventata da Agliè, Agliè era una creatura inventata da Belbo e Belbo non sapeva più da chi era stato inventato lui.
1448 Aveva ripreso in mano il giornale. L'unica cosa certa era che lui era l'uomo dell'identikit. Per convincerlo gli era arrivata proprio in quel momento, in ufficio, una nuova telefonata. Lo stesso accento balcanico, le stesse raccomandazioni.
1449 Allora si era deciso. Aveva preso il telefono e aveva chiamato De Angelis. In questura gli avevano fatto delle difficoltà, pareva che il commissario non lavorasse più lì. Poi avevano ceduto alle sue insistenze e gli avevano passato un ufficio.
1450 Era ormai sera. Era andato da Pilade, aveva scambiato quattro parole con chissà chi, aveva ecceduto con l'alcool. E la mattina dopo aveva cercato l'unico amico che gli fosse rimasto. Era andato da Diotallevi. Era andato a chiedere aiuto a un uomo che stava morendo.
1451 E dell'ultimo loro colloquio aveva lasciato su Abulafia un resoconto febbrile in cui non riuscivo a dire quanto ci fosse di Diotallevi o di Belbo, perché in entrambi i casi era come il mormorio di chi dice la verità sapendo che non è più il momento di trastullarsi con l'illusione.
1452 E così accadde a Rabbi Ismahel ben Elisha con i suoi discepoli, che studiarono íl libro Jesirah e sbagliarono i movimenti e camminarono all'indietro, finché sprofondarono essi stessi nella terra sino all'ombelico, a causa della forza delle lettere.
1453 Va bene, scriveva, io sono ricercato dalla polizia per le stesse ragioni per cui Diotallevi ha il cancro. Povero amico, lui muore, ma io, io che non ho il cancro, che faccio? Io vado a Parigi a cercare la regola della neoplasia.
1454 Non si era arreso subito. Era rimasto chiuso in casa per quattro giorni, aveva rimesso in ordine i suoi files, frase dopo frase, per trovare una spiegazione. Poi aveva steso il suo racconto, come un testamento, raccontando a se stesso, ad Abulafia, a me o a chiunque avesse potuto leggere.
1455 A Parigi doveva aver avuto il primo contatto e si era accorto che Essi non credevano alle sue parole. Erano troppo semplici. Ormai si attendevano una rivelazione, pena la morte. Belbo non aveva rivelazioni da fare e, ultima tra le sue viltà, aveva temuto di morire.
1456 Adesso, mi chiedevo nell'appartamento di Belbo, terminando di leggere le sue confessioni, che debbo fare io? Da Garamond non ha senso andare, De Angelis è partito, Diotallevi ha detto tutto quello che aveva da dire. Lia sta lontano in un posto senza telefono.
1457 Dovevo prendere una decisione rapida. Perché, mi chiedevo l'altra sera nel periscopio, non hai scelto di far finta di nulla? Avevi davanti a te í testi di un pazzo, che raccontava dei suoi colloqui con altri pazzi e dell'ultimo colloquio con un moribondo sovreccitato, o sovradepresso.
1458 Ma questo me lo chiedevo nel periscopio, mentre i piedi mi si intorpidivano, e la luce scemava, e provavo la paura innaturale e naturalissima che ogni essere umano deve provare di notte da solo, in un museo deserto: Quella mattina invece non avevo paura.
1459 L'interno non era più confortevole, un ammasso di libri alle pareti e per terra, con un tavolino in fondo, ed un libraio che sembrava messo apposta per consentire a uno scrittore di scrivere che era più vecchio dei suoi libri.
1460 La libreria Sloane forniva davvero tutto, dalla culla alla tomba, anche il sano divertimento serale, da portarvi i bambini prima di pestarli nel mortaio. Avevo udito un telefono squillare, e avevo visto il libraio scostare una pila di fogli, sino a individuare la cornetta.
1461 Gli altri due clienti erano usciti, mi sentivo a disagio. Mi ero deciso, avevo attirato l'attenzione del vecchio con un colpo di tosse, e gli avevo detto che cercavo un conoscente, un amico che di solito passava dà quelle parti, monsieur Agliè.
1462 Mi aveva guardato come se fossi l'uomo della telefonata. Forse, avevo detto, lui non lo conosceva come Agliè, ma come Rakosky, o Soltikoff, o... Mi aveva guardato ancora, stringendo gli occhi, senza alcuna espressione, e mi aveva fatto notare che avevo degli amici curiosi con molti nomi.
1463 Gli avevo detto che non importava, avevo chiesto tanto per chiedere. Aspetti, mi aveva detto, il mio socio sta arrivando e forse lui conosce la persona che lei cerca. Anzi, si accomodi, là in fondo c'è una sedia. Faccio una telefonata e controllo.
1464 Era mezzogiorno passato, in serata sarebbe accaduto qualcosa al Conservatoire. Che dovevo fare? Avevo imboccato rue Saint Jacques e ogni tanto mi voltavo indietro. A un certo punto mi era parso che un arabo mi seguisse. Ma perché pensavo che fosse un arabo.
1465 Ero passato davanti a un albergo, ero entrato e avevo chiesto una camera. Mentre salivo con la chiave, per una scala di legno che dava su un primo piano con ringhiera, da cui si scorgeva il banco, avevo visto entrare il presunto arabo.
1466 E lì mi ero appisolato, inquieto, sino alle tre. Poi mi ero lavato la faccia e mi ero avviato verso il Conservatoire. Ormai non mi restava altro da fare, entrare nel museo, restarvi oltre la chiusura, e attendere la mezzanotte.
1467 E se di colpo avessi illuminato una presenza viva, la figura di qualcuno, un inviato dei Signori, che stava ripetendo specularmente il mio percorso? Chi avrebbe gridato per primo? Tendevo l'orecchio. A che pro? Io non facevo rumore, strisciavo.
1468 Sezione della verrerie. Ero tornato sui miei passi. Bottigliette verdi, un ospite sadico stava offrendomi veleni in quintessenza. Macchine di ferro per fare le bottiglie, si aprivano e si chiudevano con due manopole, e se qualcuno invece che la bottiglia ci metteva dentro il polso.
1469 Zac, come doveva accadere con quei tenaglioni, quelle forbiciattole, quei bisturi a becco ricurvo che potevano essere infilati nello sfintere, nelle orecchie, nell'utero, per trarne il feto ancora fresco da pestare col miele e col pepe per soddisfare la sete di Astarte.
1470 La faccia anteriore del basamento si era ribaltata in avanti, formando come una passerella che permetteva l'uscita da un condotto. E di lì uscì infatti un individuo con una lanterna – forse a gas, dai vetri colorati, che gli illuminava il volto di vampe rossastre.
1471 Dovevo distendermi. Respirai ritmicamente col naso, aumentando via via l'intensità delle aspirazioni. Credo che sia così che, sotto tortura, si può decidere di perdere i sensi per sottrarsi al dolore. Infatti mi sentii sprofondare lentamente nell'abbraccio del Mondo Sotterraneo.
1472 Emersi lentamente alla coscienza. Udivo suoni, ero disturbato da una luce ora più forte. Mi sentivo i piedi intorpiditi. Cercai di alzarmi lentamente senza far rumore e mi pareva di reggermi su di una distesa di ricci di mare.
1473 La Sirenetta. Feci alcuni movimenti silenziosi, flettendomi sulle punte, e la sofferenza diminuì. Solo allora, sporgendo cautamente il capo, a destra e a sinistra, e rendendomi conto che la garitta era rimasta abbastanza in ombra, riuscii a dominare la situazione.
1474 La navata era illuminata ovunque. Erano le lanterne, ma ora erano decine e decine, portate dai convenuti che stavano giungendo alle mie spalle. Uscendo certamente dal condotto, sfilavano alla mia sinistra entrando nel coro e si disponevano nella navata.
1475 Alla mia sinistra le lanterne erano poste per terra a semicerchio, completando con una circonferenza schiacciata la curva orientale del coro, toccando al punto estremo di quello pseudo semicerchio, verso sud, la statua di Pascal.
1476 Il Pendolo! Il Pendolo non oscillava più nel suo luogo consueto a mezza crociera. Era stato appeso, più grande, alla chiave di volta, al centro del coro. Più grande la sfera, più robusto il filo, che mi pareva un canapo, o un cavo di metallo attorcigliato.
1477 Avevano voluto ripristinarlo così come i Templari dovevano averlo sperimentato la prima volta, mezzo millennio prima di Foucault. Per permettergli di oscillare liberamente avevano eliminato alcune infrastrutture, creando all'anfiteatro del coro quella rozza antistrofe simmetrica segnata dalle lanterne.
1478 Era in frac, come Mandrake. Dopo, vedendo gli altri suoi compagni avrei capito che era un prestidigitatore, un illusionista del Petit Cirque di Madame Olcott, un professionista capace di dosare la pressione dei polpastrelli, dal polso sicuro, abile a lavorare sugli scarti infinitesimali.
1479 I suoi compagni. Ora vedevo anch'essi. Si muovevano tra le automobili della navata, scivolavano accanto alle draisiennes e ai motocicli, quasi rotolavano nell'ombra, chi portando uno scranno e un tavolo coperto di panno rosso nel vasto ambulacro sul fondo, chi collocando altre lanterne.
1480 Piccoli, notturni, ciangottanti, come bambini rachitici, e di uno che mi stava passando accanto scorsi i tratti mongoloidi e la testa calva. Les Freaks Mignons di Madame Olcott, gli immondi piccoli mostri che avevo visto nel manifesto da Sloane.
1481 Il circo era lì al completo, staff, polizia, coreografi del rito. Vidi Alex et Denys, les Géants d'Avalon, fasciati da un'armatura di cuoio borchiato, veramente giganteschi, i capelli biondi, appoggiati contro la grande mole dell'Obéissant, con le braccia conserte in attesa.
1482 Non ebbi tempo per farmi altre domande. Qualcuno era entrato con solennità, imponendo il silenzio a mano tesa. Riconobbi Bramanti solo perché portava la tunica scarlatta, la cappa bianca e la mitria che gli avevo visto addosso quella sera in Piemonte.
1483 Bramanti si avvicinò al braciere, gettò qualcosa, ne levò una fiammata, poi una fumata grassa e bianca, e il profumo si sparse lentamente per la sala. Come a Rio, pensavo, come alla festa alchemica. E non ho l'agogò. Portai il fazzoletto al naso e alla bocca, come un filtro.
1484 Bramanti recitava le dignità e i nominati entravano a gruppi, così che non riuscivo ad assegnare a ciascuno il proprio titolo, ma certamente tra i primi dodici vidi De Gubernatis, il vecchio della libreria Sloane, il professor Camestres e altri che avevo incontrato quella sera in Piemonte.
1485 Aveva parlato in modo imperioso, il brusio della navata sembrava esserle favorevole, i due giganti avevano ubbidito affidando Lorenza a due Freaks Mignons, Agliè aveva le mani contratte sui braccioli dello scranno e non aveva osato opporsi.
1486 Madame Olcott aveva fatto segno ai suoi mostriciattoli, e fra la statua di Pascal e l'Obéissant erano state poste tre poltroncine, sulle quali essa ora stava facendo accomodare tre individui. Tutti e tre scuri di carnagione, piccoli di statura, nervosi, con grandi occhi bianchi.
1487 In quel momento riapparvero i giganti di Avalon tenendo per le braccia proprio Jacopo Belbo, che ai due arrivava a malapena alle spalle. Il mio povero amico era terreo, con la barba di molti giorni, aveva le mani legate dietro la schiena e una camicia aperta sul petto.
1488 Belbo stava certamente per domandare ad Agliè che cosa le avevano fatto, ma non ne ebbe il tempo. Dal fondo della navata, verso la zona della cassa e dei banchi dei libri, si udì un rullo di tamburi, e alcune note stridenti di flauti.
1489 Un cappello di feltro senza tesa, come un fez, ampi mantelli neri chiusi sino al collo, Les Derviches Hurleurs uscirono dalle automobili come risorti che sorgessero dal sepolcro e si accovacciarono ai bordi del cerchio magico.
1490 Dalla carlinga dell'aeroplano di Breguet, come il muezzin dal minareto, si sporse un quinto dei loro, che iniziò a salmodiare in una lingua ignota, gemendo, lamentandosi, con toni striduli, mentre riprendevano i tamburi, crescendo d'intensità.
1491 Madame Olcott si era chinata dietro ai fratelli Fox e sussurrava loro frasi di incoraggiamento. I tre si erano abbandonati sulle poltrone, le mani strette ai braccioli, con gli occhi chiusi, iniziando a traspirare e agitando tutti i muscoli del viso.
1492 Nel contempo i medium si erano come rattrappiti, il volto teso e sfigurato, sembrava che volessero defecare senza riuscirci, respiravano rauchi. La luce del braciere si era attenuata, e gli accoliti di Madame Olcott avevano spento tutte le lanterne poste a terra.
1493 E a poco a poco si verificò il prodigio. Dalle labbra di Theo Fox iniziava a uscire come una spuma biancastra che a poco a poco si solidificava, e una spuma analoga, con un poco di ritardo, stava uscendo dalle labbra dei suoi fratelli.
1494 I medium parevano trasudare una sostanza dapprima gassosa, poi più consistente, era come una lava, un albume che si snodava lentamente, saliva e discendeva, strisciava loro sulle spalle, sul petto, sulle gambe, con movimenti sinuosi che ricordavano quelli di un rettile.
1495 Anche Leo Fox era allo stremo, la voce della civetta si era affievolita verso la fine. Leo aveva reclinato il capo, e sosteneva la forma a fatica. Implacabile Madame Olcott lo incitava a resistere e si rivolgeva all'ultima forma, che ora aveva assunto fattezze antropomorfe anch'essa.
1496 Geo Fox cercò di sostenersi afferrandosi alla sua stessa secrezione che, trascinata in quella caduta, si dissolse sbavando verso terra. Geo si accasciò nella gora vischiosa che stava continuando a vomitare, quindi si irrigidì senza vita.
1497 Belbo rimase ritto sullo scranno, la corda al collo. I giganti non avevano più bisogno di trattenerlo. Se avesse fatto un solo movimento falso sarebbe caduto da quell'instabile posizione, e il cappio gli avrebbe serrato la gola.
1498 La folla calpestandosi si era di nuovo ritirata ai bordi, per lasciar spazio al prodigio. L'addetto alle oscillazioni, inebriato dalla rinascita del Pendolo, ne assecondava l'impeto agendo direttamente sul corpo dell'impiccato.
1499 Mentre la canea dei diabolici, per un istante attonita di fronte al portento, riprendeva a vociare, mi dissi che la storia era veramente finita. Se Hod è la sefirah della Gloria, Belbo aveva avuto la gloria. Un solo gesto impavido lo aveva riconciliato con l'Assoluto.
1500 Un doppio pendolo con due masse attaccato allo stesso filo... Se sposti A, A oscilla e dopo un po' si ferma e oscilla B. Se i pendoli accoppiati hanno masse o lunghezze diverse, l'energia passa dall'uno all'altro ma i tempi di queste oscillazioni dell'energia non sono uguali.
1501 Il basamento era ancora aperto. Entrai, discesi, e al termine della scaletta mi trovai su di un piccolo pianerottolo, illuminato dalla lampadida, su cui si apriva una scala a chiocciola, in pietra. E alla fine di questa entrai in un corridoio dalle volte piuttosto alte, illuminato fiocamente.
1502 A tutta prima non mi resi conto dov'ero, e da dove provenisse lo sciacquio che udivo. Poi abituai gli occhi: ero in un condotto fognario, una sorta di ringhiera con un corrimano mi avrebbe impedito di cadere nell'acqua, ma non mi impediva di percepire un tanfo disgustoso, tra il chimico e l'organico.
1503 Avevo negli occhi una sola immagine, il geroglifico tracciato nel coro dal corpo morto di Belbo. Non riuscivo a capacitarmi di quel disegno, a quale disegno corrispondesse. Ora so che era una legge fisica, ma il modo in cui lo so rende ancor più emblematico il fenomeno.
1504 Qui, nella casa di campagna di Jacopo, fra i tanti suoi appunti, ho trovato una lettera di qualcuno, che in risposta a una sua questione gli raccontava come funziona un pendolo, e come si comporterebbe se lungo il suo filo fosse appeso un altro peso.
1505 Andavo per il condotto, amens come Postel, forse smarrito nella stessa tenebra, e all'improvviso ebbi il segnale. Una lampada più forte, fissata al muro, mi mostrava un'altra scala, di natura provvisoria, che arrivava a una botola di legno.
1506 Mi fermai ansimando. Solo in quel momento pensai a Lorenza. Ora piangevo io. Ma essa stava scivolando via dalle mie vene, come se non fosse mai esistita. Non riuscivo neppure più a ricordarne il volto. Di quel mondo di morti, era la più morta.
1507 Alla fine del corridoio trovai una nuova scala, una porta. Entrai in un ambiente fumoso e maleodorante, una taverna, un bistrot, un bar orientale, camerieri di colore, avventori sudaticci, spiedini grassi e boccali di birra. Uscivo dalla porta come uno che fosse già lì, e fosse andato a orinare.
1508 Ma di colpo, dopo pochi isolati, alla mia sinistra, il Conservatoire, pallido nella notte. Dall'esterno, perfetto. Un monumento che dorme il sonno del giusto. Proseguo a sud, verso la Senna. Avevo una meta in mente, ma non mi era chiara.
1509 Ora incrocio la facciata del Beaubourg. Di giorno è una sagra paesana, adesso la piazza è quasi deserta, qualche, gruppo silenzioso e addormentato, rade luci dalle brasseries di fronte. È vero. Grandi sfiatatoi che assorbono energia dalla terra.
1510 Bafometto. Proprio dove i semiarchi si congiungono, mentre al culmine del primo c'è una colomba dello spirito santo con una gloria in raggi di pietra, sul secondo, assediato da angeli oranti, lui, il Bafometto, con le sue ali tremende.
1511 Rue de Bretagne sino all'incrocio con me nenie du Tempie. Rue Vieille du Tempie dopo l'incrocio con me Barbette ha degli strani negozi di lampade elettriche di forme bizzarre, ad anatra, a foglia d'edera. Troppo ostentatamente moderni.
1512 Un ubriaco. Forse finge. Diffidare, diffidare sempre. Incrocio un bar ancora aperto, i camerieri coi grembialoni lunghi sino alla caviglia stanno già radunando le sedie e i tavolini. Faccio in tempo a entrare e mi danno una birra.
1513 E sono all'angolo di piace des Vosges. Percorro i portici. Qual era quel vecchio film che risuonava dei passi solitari di Mathias, l'accoltellatore folle, di notte, per piace des Vosges? Mi arresto. Sento passi dietro di me? Certo che no, si sono fermati anche loro.
1514 Soffitti bassi del Cinquecento, archi a tutto sesto, gallerie di stampe e antiquariato, mobili. Piace des Vosges, così bassa coi portoni vecchi e rigati e slabbrati e lebbrosi, ci sta gente che non si è mossa da centinaia d'anni.
1515 Eppure no, tra i portici e íl giardino centrale ci sono automobili parcheggiate e qualche rara ombra che passa. Ma questo non rende più affabile il rapporto. Un grande pastore tedesco mi attraversa la strada. Un cane nero solo di notte.
1516 Wagner. Ecco l'idea che mi stava girando per il capo senza affiorare. Il dottor Wagner, è lui che voglio. Lui potrà dirmi se deliro, a quali fantasmi ho dato sostanza. Potrà dirmi che non è vero niente, che Belbo è vivo e il Tres non esiste.
1517 Non risultava alcun dottor Wagner. Allora era il diciassette? O il ventisette? Feci due o tre tentativi, poi tornai in me. Anche se avessi individuato il portone, stavo forse pensando di tirare il dottor Wagner giù dal letto a quell'ora per raccontargli la mia storia.
1518 Dovevo tornare all'albergo. Avrei trovato un altro tassi? Per quel che ne avevo capito, avrei potuto essere in estrema banlieue. Avevo puntato verso la direzione da dove perveniva una luce più chiara e diffusa e si intravedeva il cielo aperto.
1519 Se fossi restato ancora un poco sotto il suo traforo, i suoi grandi artigli si sarebbero rinserrati, si sarebbero incurvati come zanne, mi avrebbero succhiato, e poi l'animale avrebbe ripreso la sua posizione sorniona di temperamatite criminale e sinistro.
1520 Come si difende bene la Tour, mi dicevo, da lontano ammicca affettuosa, ma se ti appressi, se cerchi di penetrare il suo mistero, ti uccide, ti gela le ossa, semplicemente ostentando lo spavento insensato di cui è fatta. Ora so che Belbo è morto e che il Piano è vero, perché è vera la Torre.
1521 E poi Parigi quel giorno aveva altro a cui pensare. Me lo aveva detto subito il portiere, appena ero sceso a cercare un caffè. La città era in subbuglio, molte stazioni del metró erano state chiuse, in alcuni luoghi la polizia caricava, gli studenti erano troppi e stavano esagerando.
1522 Avevo trovato sulla guida telefonica il numero del dottor Wagner. Avevo anche provato a telefonare, ma era ovvio che di domenica non fosse in studio. Dovevo in ogni caso andare a controllare al Conservatoire. Ricordavo che apriva anche la domenica pomeriggio.
1523 Il quartiere latino era agitato. Passavano gruppi vocianti con bandiere. Sull'Ile de la Cíté avevo visto uno sbarramento di polizia. Sul fondo si sentivano dei colpi. Doveva essere stato così nel sessantotto. All'altezza della Saínte Chapelle c'era stata maretta, sentivo un odore di lacrimogeni.
1524 Avevo udito una sorta di carica, non sapevo se fossero gli studenti o i flic, la gente intorno a me correva, ci eravamo rifugiati dietro una cancellata, con un cordone di poliziotti davanti, mentre nella strada avvenivano dei trambusti.
1525 Ero entrato – gratis di domenica – e ogni cosa era come il pomeriggio prima alle cinque. I guardiani, i visitatori, il Pendolo al suo posto consueto... Cercavo le tracce di quanto era avvenuto ma, se era avvenuto, qualcuno aveva fato una coscienziosa polizia.
1526 Non mi ricordo come ho passato il resto del pomeriggio. Non mi ricordo neppure che cosa ho visto bighellonando per le strade, costretto ogni tanto a svicolare per evitare un trambusto. Ho chiamato Milano, tanto per provare. Scaramanticamente, ho fatto il numero di Belbo.
1527 Verso sera mi sono accorto che ero digiuno. Volevo tranquillità, e qualche fasto. Presso al Forum des Halles sono entrato in un ristorante che mi prometteva del pesce. Anche troppo. Il tavolo proprio di fronte a un acquario. Un universo abbastanza irreale da ripiombarmi in un clima di sospetto assoluto.
1528 Nulla è per caso. Quel pesce sembra un esicasta asmatico che sta perdendo la fede e accusa Dio di aver diminuito di senso l'universo. Sabaoth Sabaoth, come fai a essere così maligno da farmi credere che non ci sei? Come una cancrena, la carne si stende sul mondo.
1529 Come ho fatto venire stamattina? Mi pare di essere entrato in un cinema dove davano La signora di Shanghai, di Orson Welles. Quando sono arrivato alla scena degli specchi, non ho retto e sono uscito. Ma forse non è vero, me lo sono immaginato.
1530 Questa mattina ho telefonato alle nove al dottor Wagner, il nome Garamond mi ha permesso di superare la barriera della segretaria, il dottore è parso ricordarsi di me, di fronte all'urgenza che gli prospettavo mi ha detto di andare subito, alle nove e mezzo, prima che arrivassero gli altri pazienti.
1531 Ho parlato, come una cateratta, ho tirato fuori tutto, dall'inizio alla fine, quello che pensavo due anni fa, quello che pensavo l'anno scorso, quello che pensavo che Belbo avesse pensato, e Diotallevi. E soprattutto quello che è accaduto la notte di San Giovanni.
1532 Erano le undici. Ho raccolto le mie cose all'albergo e mi sono precipitato all'aeroporto, fidando nella buona sorte. Ho dovuto attendere due ore, e frattanto ho chiamato a Milano la Garamond, collect, perché non avevo più un soldo.
1533 La nota della lavandaia per noi è stato un cruciverba dalle caselle ancora vuote, ma senza le definizioni. Dunque occorre riempire le caselle in modo che tutto si incroci a dovere. Ma forse l'esempio è impreciso. Nel cruciverba si incrociano parole e le parole debbono incrociarsi su una lettera comune.
1534 Prima regolai concetti si collegano per analogia. Non ci sono regole per decidere all'inizio se un'analogia sia buona o cattiva, perché qualsiasi cosa è simile a qualsiasi altra sotto un certo rapporto. Esempio. Patata si incrocia con mela, perché entrambe sono vegetali e tondeggianti.
1535 Così abbiamo fatto noi. Non abbiamo inventato nulla, salvo la disposizione dei pezzi. Così aveva fatto Ardenti, non aveva inventato nulla, salvo che aveva disposto i pezzi in modo goffo, e inoltre era meno colto di noi, i pezzi non li aveva tutti.
1536 In fondo accade sempre così. Un giovane Erostrato si rode perché non sa come diventare famoso. Poi vede un film in cui un ragazzo fragile spara contro la diva della country music e crea l'evento del giorno. Ha trovato la formula, va e spara a John Lennon.
1537 È come per gli APS. Come faccio a diventare un poeta pubblicato che finisce sulle enciclopedie? E Garamond gli spiega: semplice, paghi. L'APS non ci aveva mai pensato prima, ma visto che esiste il piano della Manuzio, vi si identifica.
1538 Abbiamo offerto una mappa a persone che cercavano di vincere una loro oscura frustrazione. Quale? Me lo aveva suggerito l'ultimo file di Belbo: non ci sarebbe fallimento se davvero ci fosse un Piano. Sconfitta, ma non per colpa tua.
1539 Non ti lamenti di essere mortale, preda di mille microrganismi che non domini, non sei responsabile dei tuoi piedi poco prensili, della scomparsa della coda, dei capelli e dei denti che non ricrescono, dei neuroni che semini strada facendo, delle vene che si induriscono.
1540 E lo stesso vale per la vita di tutti i giorni. Come i crolli in borsa. Avvengono perché ciascuno fa un movimento sbagliato, e tutti i movimenti sbagliati insieme creano il panico. Poi chi non ha í nervi saldi si chiede: ma chi ha ordito questo complotto, a chi giova.
1541 E più escogiti i complotti altrui, per giustificare la tua incomprensione, più te ne innamori, e concepisci il tuo sulla loro misura. Che è poi quello che era successo quando tra gesuiti e baconiani, pauliciani e neotemplari, ciascuno si rinfacciava il piano dell'altro.
1542 Un complotto, se complotto dev'essere, è segreto. Ci dev'essere un segreto conoscendo il quale noi non saremmo più frustrati, perché o sarebbe il segreto che ci porta alla salvezza o il conoscere il segreto si identificherebbe con la salvezza.
1543 Ricordavo una storia che mi aveva raccontato Amparo. Prima ancora di venire in Italia, era stata alcuni mesi a New York, ed era andata ad abitare in un quartiere di quelli dove al massimo ci girano i telefilm sulla squadra omicidi.
1544 Se sei un maniaco del sesso, il sesso non lo vuoi, vuoi desiderarlo, al massimo rubarlo, ma possibilmente all'insaputa della vittima. Se ti mettono di fronte al sesso e dicono qui Rodi, qui salta, è naturale che scappi, altrimenti che maniaco saresti.
1545 Non è possibile. Non è possibile perché Lia mi ha insegnato che c'è altro, e ne ho la prova, si chiama Giulio e in questo momento sta giocando in una valle, e tira la coda a una capra. Non è possibile perché Belbo ha detto due volte no.
1546 Non è che non abbia voluto piegarsi alla foia del potere, non ha voluto piegarsi al non senso. E questo vuoi dire che egli in qualche modo sapeva che, per fragile che l'essere sia, per infinita e senza scopo che sia la nostra interrogazione del mondo, c'è qualcosa che ha più senso del resto.
1547 Non ho trovato neppure la vecchia parente dei Canepa, o custode che fosse, che avevamo visto allora. Forse è morta anche lei nel frattempo. Qui non c'è nessuno. Ho attraversato le varie stanze, c'è odore di umido, avevo persino pensato di accendere il prete in una delle stanze da letto.
1548 Credo di essere arrivato qui verso le sei di sera, era ancor chiaro. Non mi ero portato nulla da mangiare, poi, girando a caso, sono entrato in cucina e ho trovato un salame appeso a una trave. Ho cenato a salame e acqua fresca, credo verso le dieci.
1549 Ora ho sete, mi sono portato qui nello studio di zio Carlo una grande caraffa d'acqua, e ne ingollo ogni dieci minuti, poi scendo, riempio, e ricomincio. Dovrebbero essere le tre, ora. Ma ho la luce spenta e faccio fatica a leggere l'orologio.
1550 Rifletto, guardando alla finestra. Ci sono come delle lucciole, delle stelle cadenti sui fianchi delle colline. Rare macchine che passano, scendono a valle, salgono verso i paesini sui cocuzzoli. Quando Belbo era ragazzo non dovevano esserci queste visioni.
1551 Ho aperto l'armadio dei juvenilia, subito appena arrivato. Ripiani e ripiani di carte, dai compiti scolastici delle elementari a fascicoli e fascicoli di poesie e prose dell'adolescenza. Tutti nell'adolescenza hanno scritto poesie, poi i veri poeti le hanno distrutte e i cattivi poeti le hanno pubblicate.
1552 Fu dato fuoco alla corona della tromba, e allora vidi aprirsi l'apertura della cupola e uno splendido strale di fuoco saettare giù attraverso il tubo della tromba ed entrare nei corpi privi di vita. Dopo, l'apertura fu nuovamente chiusa e anche la tromba fu allontanata.
1553 Si era però raggiunto un modus vivendi, ci voleva un comando unificato per l'attacco alla città, e la scelta era caduta su Terzi, che comandava la brigata meglio attrezzata, era il più anziano, aveva fatto la grande guerra, era un eroe e godeva la fiducia del comando alleato.
1554 Poi un pomeriggio si erano sentiti i rumori degli automezzi, dei canti di vittoria, la gente era corsa sulla piazza grande, dalla statale stavano arrivando i primi contingenti, pugni levati, bandiere, un agitare di armi dai finestrini delle macchine o dai predellini dei camion.
1555 All'improvviso qualcuno aveva gridato Ras Ras, e Ras era lì, accovacciato sul parafango anteriore di un dodge, con la barba arruffata e ciuffi di peli neri sudati che gli uscivano dalla camicia aperta sul petto, e salutava la folla ridendo.
1556 Accanto a Ras era sceso dal Dodge anche Rampini, un ragazzo miope che suonava in banda, poco più anziano degli altri, che era scomparso da tre mesi e si diceva avesse raggiunto i partigiani. E infatti eccolo lì, con il fazzoletto rosso al collo, la giubba cachi, un paio di pantaloni azzurri.
1557 Era l'uniforme della banda di don Tíco, ma lui aveva ora un cinturone con la fondina, e una pistola. Coi suoi occhiali spessi che gli erano valsi tante ironie da parte dei suoi vecchi compagni dell'oratorio, ora guardava le ragazze che gli si affollavano intorno come fosse Flash Gordon.
1558 Da un balcone del palazzo comunale era apparso Terzi, appoggiato alla sua stampella, pallido, e con la mano aveva cercato di calmare la folla. Jacopo attendeva il discorso, perché tutta la sua infanzia, come quella dei suoi coetanei, era stata segnata da grandi e storici discorsi del Duce, di cui si.
1559 Don Tico aveva accettato subito. Anzitutto, diceva lui, perché era sempre stato di sentimenti antifascisti. Poi, come sussurravano i suonatori, perché era un anno che faceva studiare per esercizio due marce funebri, e doveva pur farle eseguire un giorno o l'altro.
1560 Jacopo quel giorno non c'era. Aveva la tonsillite. C'erano solo Annibale Cantalamessa e Pio Bo, e la loro esclusiva presenza deve aver contribuito radicalmente al crollo del nazifascismo. Ma per Belbo íl problema era un altro, almeno nel momento in cui ne scriveva.
1561 Si erano precipitati nell'osteria, e quelli della banda comunale, vecchi arnesi fatti coriacei da infiniti funerali, senza alcun ritegno si erano buttati sui tavoli ordinando trippa e vino a volontà. Sarebbero rimasti a far bisboccia sino a sera.
1562 I ragazzi di don Tico invece si erano affollati al banco, dove il padrone stava servendo delle granite di menta, verdi come un esperimento chimico. Il ghiaccio colava di colpo in gola e faceva venir male al centro della fronte, come la sinusite.
1563 E Jacopo si era inoltrato nel cimitero, guidato dallo psicopompo coi nastrini di Addis Abeba. Tutto intorno era bianco, il muro battuto dal sole, le tombe, la fioritura degli alberi di cinta, la cotta del prevosto pronto a benedire, salvo il marrone fané delle foto sulle lapidi.
1564 Terzi stava pronunciando un discorso asciutto, con frasi molto corte. Jacopo pensava che per emettere lo squillo avrebbe dovuto alzare gli occhi al cielo, e il sole lo avrebbe accecato. Ma così muore un trombettiere e visto che si muore una volta sola tanto valeva farlo bene.
1565 Per questo Jacopo era rimasto fermo, insensibile alla stessa caduta dei bossoli che gli rotolavano ai piedi, né aveva rimesso la tromba al fianco, ma la teneva ancora alla bocca, le dita sui tasti, rigido sull'attenti, lo strumento che puntava diagonale verso l'alto.
1566 Jacopo continuava a emettere quella illusione di nota perché sentiva che in quel momento egli stava sgomitolando un filo che teneva il sole a freno. L'astro si era bloccato nel suo corso, si era fissato in un mezzogiorno che avrebbe potuto durare una eternità.
1567 Nessuno gli aveva detto ancora che il Graal è una coppa ma è anche una lancia, e la sua tromba levata a calice era al tempo stesso un'arma, uno strumento di dolcissimo dominio, che saettava verso il cielo e collegava la terra con il Polo Mistico.
1568 Come si può passare una vita cercando l'Occasione, senza accorgersi che il momento decisivo, quello che giustifica la nascita e la morte, è già passato? Non ritorna, ma è stato, irreversibilmente, pieno, sfolgorante, generoso come ogni rivelazione.
1569 L'ossessione del Pendolo, che aveva accompagnato Jacopo Belbo per tutta la sua vita adulta, era stata – come gli indirizzi perduti del sogno – l'immagine di questo altro momento, registrato e poi rimosso, in cui egli aveva davvero toccato la volta del mondo.
1570 E questo, il momento in cui aveva gelato lo spazio e il tempo scoccando la sua freccia di Zenone, non era stato un segno, un sintomo, un'allusione, una figura, una segnatura, un enigma: era ciò che era e che non stava per niente altro, il momento in cui non c'è più rinvio, e i conti sono pari.
1571 Jacopo Belbo non aveva capito che aveva avuto il suo momento e avrebbe dovuto bastargli per tutta la vita. Non l'aveva riconosciuto, aveva passato il resto dei suoi giorni a cercare altro, sino a dannarsi. O forse lo sospettava, altrimenti non sarebbe tornato così sovente sul ricordo della tromba.
1572 Poi era stato comandato il riposo. Avrebbe ceduto in ogni caso, perché gli stava mancando il respiro. Aveva interrotto il contatto, poi aveva squillato una sola nota, alta e a intensità decrescente, teneramente, per abituare il mondo alla melanconia che lo stava attendendo.
1573 Il prevosto era sgusciato via, i partigiani si erano avviati verso un cancello posteriore dove li attendevano i loro automezzi, i becchini se n'erano andati dopo aver colmato le fosse. Jacopo era uscito per ultimo. Non riusciva a lasciare quel luogo di felicità.
1574 Jacopo si era chiesto come mai, don Tico non lo avrebbe mai abbandonato così. A distanza di tempo, la risposta più probabile è che vi fosse stato un equivoco, che qualcuno avesse detto a don Tico che il ragazzo lo riconducevano a valle i partigiani.
1575 Jacopo era solo. Alle spalle un cimitero ormai vuoto, tra le mani la tromba, davanti le colline che sfumavano sempre più turchine l'una dietro l'altra verso la cotognata dell'infinito e, vendicativo sul suo capo, il sole in libertà.
1576 Ho capito. La certezza che non vi era nulla da capire, questo dovrebbe essere la mia pace e il mio trionfo. Ma io sono qui, che tutto ho capito, ed Essi mi cercano, pensando che possegga la rivelazione che sordidamente dèsiderano.
1577 Non basta aver capito, se gli altri si rifiutano e continuano a interrogare. Mi stanno cercando, debbono aver ritrovato le mie tracce a Parigi, sanno che ora sono qui, vogliono ancora la Mappa. E per tanto che io gli dica che mappe non ce ne sono, la vorranno sempre.
1578 Mi fa male pensare che non vedrò più Lia e il bambino, la Cosa, Giulio, la mia Pietra Filosofale. Ma le pietre sopravvivono da sole. Forse sta vivendo ora la sua Occasione. Ha trovato una palla, una formica, un filo d'erba, e vi sta vedendo in abisso il paradiso.

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